Dignità, onore, rispetto istituzionale: perché il trionfalismo sguaiato in Parlamento non rende merito alla democrazia

 

L’affossamento dell’ormai celebre (o famigerato, a seconda dei punti di vista) DDL Zan è stato accolto in Parlamento da scene di giubilo scomposto, applausi a scena aperta e sbeffeggiamenti plateali nei confronti di chi a quel testo aveva lavorato per più di due anni, credendolo un mezzo per ottenere una maggiore garanzia di diritti di categorie che nell’ordinamento stentano a trovare riconoscimento.

Il DDL Zan prevedeva nella sostanza l’estensione della legge Mancini sui crimini d’odio ai fenomeni di omotransfobia. Senza voler in questa sede tornare nel merito di un provvedimento che per molti rappresentava una legge di civiltà e per altri solo uno strumento imperfetto e potenzialmente foriero di ulteriore discriminazione tra discriminati vorrei soffermarmi sul contesto formale in cui si è svolto il dibattito e, soprattutto, l’epilogo del testo in assemblea.

La festa chiassosa che si è scatenata all’esito del voto (segreto) ha provocato in me un disagio fisico che faccio risalire a insegnamenti ricevuti già in tenera età a casa, a scuola  o in palestra. Il pensiero è corso al pomeriggio precedente quando al corso di tennis della mia figlioletta quasi seienne ho assistito a una lezione di cui io stessa sono stata protagonista negli anni di formazione. I fatti: in una gara tra compagni il gruppo della mia bambina, composto dai più piccoli, è fortuitamente riuscito a prevalere e la vittoria inaspettata ha provocato un entusiasmo enorme e coinvolgente, difficile da contenere. Un minuto di fisiologica esultanza è stato sufficiente per il maestro che ha gentilmente richiamato i suoi intorno a sé, salvo sciogliere dopo qualche istante l’assemblea di attentissimi ascoltatori; i bambini sono tornati ad allenarsi, composti e felici, con occhi brillanti di vittoria. Ho poi chiesto a mia figlia cosa l’allenatore avesse detto loro e la risposta è stata una carezza: «ci ha detto che anche se abbiamo vinto siamo tutti amici e ci dobbiamo rispettare. Non si gioisce delle sconfitte altrui».

Ora, è chiaro che in Parlamento non si è «tutti amici» e un confronto anche aspro e intransigente è sano e nell’ordine dell’istituzione ma altro è l’umiliazione del lavoro e dell’opinione altrui, espressa in modi più consoni a un veglione di Capodanno che a una istituzione della Repubblica.

Non è certo la prima volta che assistiamo, in Italia e altrove, a scene iperboliche ma la dignità, l’onore e il rispetto per il proprio ruolo e per l’istituzione dovrebbero costituire riferimento imprescindibile per chi ci rappresenta. Non è solo una questione di stile.

Carla Bassu, 29 ottobre 2021