Sulla nazionalità dei campioni: i nodi insoluti della cittadinanza 

Da quando il Covid 19 è entrato a gamba tesa nella vita di ognuno di noi, l’emergenza sanitaria e la priorità di gestirla senza incidere eccessivamente sui diritti e sulla qualità della vita delle persone e della comunità ha monopolizzato il dibattito politico. Tuttavia, nel ragionevole riconoscimento di una scala di priorità di azione, non si può trascurare la persistenza nell’ordinamento italiano di contraddizioni che incidono profondamente sulla sfera individuale e andrebbero sanate e non dimenticate, anche in tempi di pandemia.

In questo senso, particolarmente eclatante è a mio parere la vicenda della giovane Danielle Madam, campionessa pluripremiata di lancio del peso che non può indossare la maglia della nazionale perché non in possesso della cittadinanza italiana. Eppure l’atleta ventitreenne vive in Italia da quando vi giunse dal Camerun, suo paese di origine, all’età di 7 anni, 16 anni fa. Secondo il sistema attualmente previsto dalla legge italiana, gli stranieri extracomunitari possono richiedere la cittadinanza se capaci dimostrare di aver risieduto sul territorio nazionale per 10 anni, senza soluzione di continuità. Danielle avrebbe dunque già da tempo acquisito il diritto di avviare le pratiche per diventare ufficialmente italiana se non fosse che lo zio che la accolse in casa morì nel 2009 e la bambina fu affidata ai servizi sociali e ospitata in una casa-famiglia presso la quale risultava domiciliata, non residente. A causa di questo cavillo burocratico la ragazza può aspirare a ottenere la cittadinanza non prima del 2030 e questo è per lei fonte di grande frustrazione, dal momento che dichiara di sentirsi profondamente italiana (ha svolto qui tutti gli studi, oggi frequenta l’Università ed è perfettamente integrata nella società) oltre che di conseguenze pratiche, quali l’esclusione dalla rappresentanza nazionale della sua disciplina, nonostante i meriti sportivi conquistati sul campo.

Il suo caso conquistò gli onori della cronaca allorché pubblicò sui social una accorata invettiva a proposito della vicenda Suarez, accusato di aver goduto di un trattamento preferenziale nell’iter di naturalizzazione. In realtà, anche a prescindere dalle presunte agevolazioni, il percorso del calciatore è molto diverso da quello di Danielle dal momento che l’uruguaiano può acquisire la cittadinanza grazie alla trasmissione del diritto da parte di sua moglie che, figlia di un emigrato friulano, è italiana a tutti gli effetti pur essendo nata e avendo sempre vissuto all’estero. Il nostro modello è infatti ancora ancorato al criterio dello jus sanguinis che premia il legame di parentela, anche remoto, più che il rapporto creato con quella che si considera la “madrepatria”.

Il bello del diritto é che ogni cosa ha il suo perché. Ogni scelta del decisore pubblico é ispirata all'esigenza di rispondere a un'istanza emersa nella comunità di riferimento. Anche con riguardo alla cittadinanza, la decisione originaria degli ordinamenti di aderire a un modello di ius sanguinis o jus soli non è certo casuale ma dovuta al bisogno di raggiungere un obiettivo preciso. La federazione Usa, per esempio, ordinamento “giovane” e creato sulla base di ondate migratorie di varia provenienza optò per l'assegnazione della cittadinanza a chiunque nascesse sul territorio allo scopo di favorire la creazione di un popolo nuovo, agevolando il distacco dalle nazioni di provenienza attraverso il riconoscimento di diritti. All'origine della scelta vi era la necessità di costruire una nuova identità nazionale, aggregata attorno a principi e valori dettati dalla Costituzione federale.

In Italia, al contrario, come in altri Paesi tradizionalmente esportatori di migranti (forse é bene ricordare che solo recentemente siamo diventati paese di accoglienza), fu privilegiato il criterio legato alla discendenza, per il bisogno di conservare attraverso la cittadinanza il legame con la terra natia anche con i figli e nipoti di chi partiva.

Ebbene il mondo è cambiato, la società si evolve convulsamente e mutano di conseguenza le esigenze che le istituzioni sono chiamate a soddisfare. Un punto però resta fermo e invariato nel tempo: il senso di appartenenza si costruisce e si riconosce, non si concede.

Oggi, dal punto di vista del godimento dei diritti cittadini e non cittadini sono quasi del tutto assimilati: libertà civili e diritti sociali sono infatti prerogativa di tutte le persone. Solo i diritti politici sono ancora riservati ai cittadini a prescindere che questi vivano, partecipino e contribuiscono attivamente alla vita della comunità e questo si che può essere considerato contraddittorio.

La cittadinanza è uno status giuridico cui corrispondono diritti e doveri che si riconosce a chi appartiene a una determinata comunità. In concreto, criteri di assegnazione dovrebbero essere specchio di un consolidato senso di appartenenza fondato su indicatori precisi: lingua, principi e valori costituzionali.

A bambini nati sul territorio nazionale, di madrelingua italiana, che frequentano le scuole e i luoghi di aggregazione del posto in cui crescono assorbendo gli insegnamenti che la società è capace di dare la cittadinanza va riconosciuta, non concessa.

Può accadere che i dettami costituzionali e le regole di convivenza della nostra democrazia non siano condivisi dalle famiglie di origine ma questo succede anche in realtà italiane al 100 per cento, in cui non sempre ciò che si apprende in casa corrisponde con le norme del buon vivere civile. L'ordinamento, in questi casi, ha il compito di fornire un modello alternativo che consenta di rifiutare un sistema valoriale in cui non ci si identifica e allontanarlo per aderire a una realtà che si sente propria. Ma questo, si ribadisce, vale per italiani e stranieri.

Circola sul web un video (Repubblica.it) in cui si rivolgono a bambini di origine diversa ma nati e cresciuti in Italia domande che tipicamente si pongono ai più piccoli: cosa vuoi fare da grande, quale è il tuo piatto preferito, che squadra tifi. Se si oscurasse il video, ascoltando solo l'audio dell'intervista nessuno dubiterebbe del fatto che gli interpellati sono tutti italiani. I bambini rispondono pronti alle domande, l'unica esitazione arriva quando si chiede «quale è la tua cittadinanza», ovviamente nessuno sa rispondere; al quesito più diretto: «sei italiana» una ribatte eloquentemente «no, sono abruzzese». Tutti restano straniti di fronte alla scoperta di non essere italiani a tutti gli effetti. Uno di loro non è preoccupato, dice: «non importa cosa dice lo Stato, io sono me stesso, nessuno può cambiare quello che sono, io mi sento italiano». Ha ragione e lo Stato glielo deve riconoscere.

Carla Bassu, 28 novembre 2020