Anche i medici hanno diritto alla salute

L’art 32 della nostra Costituzione troneggia tra i diritti sociali riconosciuti dall'ordinamento, identificando la salute come prerogativa inalienabile e irrinunciabile per tutti. Eppure ultimamente, nel tumulto da coronavirus, pare che ci sia una categoria di esclusi dall’alveo di questa disciplina così ampia e garantista. Si tratta del personale sanitario, impegnato in prima linea contro il Covid-19.

In queste settimane molti medici, infermieri e operatori socio sanitari hanno manifestato allarme e denunciato le condizioni critiche in cui sono talvolta costretti a lavorare. La metafora è banale ma l’immagine evocata è quella di un esercito mandato a fronteggiare un nemico aggressivo e armato fino ai denti senza l’equipaggiamento idoneo.
Già all’inizio di questa drammatica esperienza, quando gli ospedali lombardi hanno cominciato a essere invasi di casi e l’emergenza è stata dichiarata in alcune “zone rosse”, tra i medici la preoccupazione serpeggiante riguardava l’inadeguatezza delle strutture e la carenza dei dispositivi di cura necessari. In tempi non sospetti, prima che la crisi si diffondesse a tutto il territorio nazionale, il personale sanitario ha invocato la predisposizione di protocolli chiari da poter mettere in atto tempestivamente, per arginare il virus nel momento in cui i primi casi si fossero presentati.
Ci sono esempi di strutture virtuose, attive in contesti amministrativi sani ed efficienti in cui ci si è mossi per tempo e la definizione sollecita di piani di azione ad hoc è servita per contenere e gestire il fenomeno. Altrove invece, nonostante il preavviso, la consapevolezza dell’aggressività del virus e delle modalità di contagio non è servita e quando i primi casi sono arrivati negli ospedali non sono stati gestiti opportunamente, non certo per mancanza di professionalità da parte dei sanitari, bensì per l’assenza di linee guida precise e per la carenza di presidi adeguati. Questo ha determinato un contagio abnorme all’interno delle strutture cliniche e di assistenza (reparti ospedalieri, case di riposo etc.) che si sarebbe potuto evitare con un’azione pronta e saggia da parte delle amministrazioni competenti.
Questo per dire che è vero che il coronavirus è di per sé terribile ma a volte è stato favorito nella sua potenzialità di rischio da un approccio non accorto.
Tra le tante criticità rilevano una politica dei tamponi confusa e irrazionale e la persistente carenza dei dispositivi di protezione, denunciata con veemenza dai sanitari, che trasforma ogni giorno di lavoro in una missione concretamente pericolosa.

La disomogeneità tra le strategie di azione territoriali ha forse influito e molto già si discute sull’opportunità di riconsiderare lo schema di riparto di competenze tra Stato e Regioni, con riferimento particolare alla sanità pubblica. La definizione di un piano di azione omogeneo, frutto di un raccordo concertato tra centro e territori avrebbe probabilmente giovato alla dinamica complessiva di gestione dell’emergenza. La Conferenza Stato Regioni resta una risorsa cruciale per il collegamento intergovernativo, non sufficientemente sfruttata. In ogni caso, come saggiamente ricordato da Sabino Cassese, il diritto alla salute non cambia se si passa dalla Lombardia alla Sicilia né – aggiungiamo – può variare tra categorie di persone. Lombardi, sardi, anziani, giovani, medici e disoccupati devono godere dello stesso regime di garanzia.

La Costituzione sancisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», disegnando la doppia dimensione della garanzia applicata al singolo e contemperata con il bene della comunità. Fermo restando il necessario bilanciamento tra posizione individuale e bene collettivo è inammissibile che le figure cui è affidata la cura dei pazienti (dagli specialisti ai volontari) subiscano rischi evitabili con misure ragionevoli.
Chi pronuncia il giuramento di Ippocrate si vota alla cura degli altri ma non per questo deve rinunciare alla propria.
Carla Bassu