La Costituzione prêt-à-porter

Pensieri su diritti, istituzioni e vita quotidiana 

 

Chi sono 

Carla Bassu, sassarese, studio e insegno il diritto pubblico comparato. Figlia, sorella, moglie e mamma orgogliosa, inseparabile dal fedele Fiji. Sportiva praticante, credo nel valore dello sport come terreno di miglioramento e sana competizione con sé stessi, prima che con gli altri. Globe-trotter precoce e lettrice vorace, conservo e coltivo la curiosità dell’infanzia. Militante delle libertà fondamentali e appassionata sostenitrice delle battaglie per le pari opportunità, aspiro a crescere mia figlia libera dagli stereotipi e consapevole che tutto si può fare.



La violenza contro le donne comincia ben prima di uno schiaffo. L’orgoglio della parità come antidoto agli abusi di genere

L’ennesimo episodio di violenza ai danni di una donna maturato nell’ambito di legami preesistenti dimostra che un inasprimento delle misure penali è insufficiente, serve agire con capillarità e rigore in via preventiva. Urge educare al rispetto e alla parità sin dalla primissima infanzia; stigmatizzare non solo i comportamenti violenti ma anche quelli paternalisti e apparentemente accudenti che nascondono invece volontà di controllo e prevaricazione. Le donne sono persone: non creature fragili da proteggere, non esseri eterei, non porcellane da rimirare ma esseri umani con caratteristiche e talenti che hanno diritto di esprimere al meglio, realizzandosi come individui e non in funzione di qualcun altro.

La violenza di genere è l’espressione cruenta di una guerra trasversale che miete quotidianamente vittime diverse per provenienza geografica e culturale, storia e attitudini ma accomunate dall’essere donna. Le molteplici forme di sopruso che gli esseri umani di sesso femminile subiscono nelle fasi della loro vita secondo una gradazione che va dal paternalismo, alla discriminazione, alla molestia fino all’abuso fisico sono espressione di una visione del mondo ancorata alla concezione arcaica, ma resistente anche nel subconscio, per cui le donne possono essere punite ove non rispondano allo stereotipo remissivo che le vuole compiacenti e subordinate. L’elemento di base che occorre tenere a mente per affrontare il tema della violenza di genere è l’iconografia standardizzata della figura femminile dedita a determinate mansioni e sostanzialmente funzionale al benessere della famiglia che a lungo, anche nelle democrazie occidentali, è stata avvalorata anche dalla dimensione giuridica. Basti pensare al caso italiano: qui per molto tempo nell’immaginario collettivo la figura della donna ideale è stata associata all’angelo del focolare e questa immagine non veniva stigmatizzata bensì avvalorata da una normativa che rifletteva la previsione di gerarchia di genere nell’ambito della famiglia e della società. Per molto tempo, nell’Italia repubblicana, il principio di eguaglianza è stato contemperato con il fine dell’unità familiare, sull’altare del quale è stato immolato. Sebbene la Costituzione del 1948 dedichi ampio spazio alla questione femminile (artt. 3; 29.2; art. 31.2; 37; 48; 51), fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, la prevalenza giuridica della posizione dell’uomo si manifestava nei tre principali ambiti della vita familiare: rapporti tra coniugi; rapporti patrimoniali e rapporti con i figli. La donna seguiva infatti la condizione civile del “capofamiglia”, ne assumeva il cognome, era tenuta a seguirlo ovunque egli ritenesse opportuno fissare la residenza ed era soggetta al dovere di coabitazione. Il marito era gestore e responsabile del patrimonio familiare e godeva di un regime sanzionatorio privilegiato in caso di adulterio. La patria potestà era formalmente affidata a entrambi i coniugi ma esercitata in via prioritaria dal padre, sostituibile dalla madre solo in caso di assenza o altro impedimento. Come corrispettivo per questi doveri di sottomissione alla volontà del marito, la donna aveva il diritto a essere mantenuta e protetta. Il nuovo diritto di famiglia muta l’impianto codicistico, affermando il principio secondo cui – per effetto del matrimonio – i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Scompare anche ogni riferimento alla patria potestà che però resta un concetto radicato nella mentalità comune. Questo gap profondo tra disciplina giuridica testuale e percezione reale ancora non è stato colmato. Presupposto per rispondere in maniera efficace alla violenza è una presa di coscienza, una assunzione di responsabilità da parte dell’ordinamento e un impegno concreto a trasformare la lettera della legge in misure effettive. Ancora in troppi ritengono che una donna debba essere comprensiva e paziente a prescindere, disposta a rinunciare alla volontà e alla libertà per compiacere o andare incontro al benessere del compagno, dei genitori, dei figli. Ma chi ci ama vuole il meglio per noi e non si sente sminuito bensì valorizzato nell’avere accanto una donna libera, forte, emancipata, alla pari.

La violenza di genere comincia prima di uno schiaffo e va ben oltre il maltrattamento fisico, nasce negli stereotipi profondamente radicati e ancora accettati che vogliono, in una coppia, l’uomo almeno un po’ più forte, più grande, più in carriera, più solido economicamente rispetto alla donna. Ma l’amore non è competizione, tantomeno sopraffazione, l’amore è complementarietà tra esseri umani che prima di tutto si rispettano.

Carla Bassu, 22 novembre 2023 

Articolo pubblicato su La Nuova Sardegna il 21 novembre 

Israele, Palestina, terrorismo e democrazia. L’impatto della tragedia di Gaza sulle libertà costituzionali

Dal brutale attacco di Hamas del 7 ottobre scorso cui è seguita la violentissima reazione israeliana, molte piazze in tutto il mondo si sono riempite di manifestazioni filo-palestinesi che in Francia sono state vietate per pericolo di incitamento all’odio, mentre la Germania ha annunciato espulsioni rapide e stop alle naturalizzazioni per stranieri che hanno espresso sostegno all’organizzazione terroristica palestinese.

Ecco il terrorismo che fa il suo mestiere, esercitando pressione sulle democrazie per costringerle a comprimere fino a negare i pilastri su cui si fonda, a partire dalla garanzia delle libertà individuali.

Il bilanciamento tra tutela dei diritti individuali ed esigenze di sicurezza rappresenta un obiettivo primario per gli ordinamenti democratici, che sono chiamati a rispondere alle minacce del terrorismo senza compromettere il regime di libertà costituzionalmente garantite. È una sfida impegnativa anche perché si manifesta in uno scontro impari, dal momento che gli ordinamenti democratici, nel configurare lo strumentario finalizzato al contrasto del terrorismo, devono prestare attenzione a non ledere gli architravi della struttura costituzionale rappresentati dai diritti individuali. Le libertà fondamentali sono messe sotto pressione nella dinamica delle priorità di una democrazia che deve riuscire nella missione di assicurare la pubblica sicurezza nel rispetto delle prerogative dei singoli.

Il punto di equilibrio tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti si presenta come lo Shangri La del costituzionalismo almeno da quando, con gli attacchi dell’11 settembre 2001, il terrorismo internazionale ha frantumato il senso di inviolabilità del governo e del popolo americano, facendo nel contempo irruzione negli incubi di chiunque aderisca al modello di civiltà occidentale. Missione compiuta dunque per i terroristi, che hanno avuto successo nel loro obiettivo di seminare il panico e, in una escalation di attentati che purtroppo non ha visto finora soluzione di continuità, fino alle vicende drammatiche di questi giorni, hanno costretto gli ordinamenti ad adottare misure incidenti in senso restrittivo sulle libertà individuali.

Nel contesto della lotta al terrorismo, il contrasto alla diffusione di contenuti che istigano alla violenza assume una valenza particolare e spinge a riflettere sulla possibilità di porre limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, giustificati dalla necessità di preservare la sicurezza pubblica.

Nello strumentario di cui le democrazie si sono dotate per combattere i fenomeni di matrice terroristica rilevano misure che incidono sul regime di libertà di espressione, nel caso in cui vengano espressi messaggi d’odio o divulgati materiali terroristici. Quale è il confine tra legittima manifestazione del proprio pensiero e diffusione di contenuti più che offensivi eversivi e potenzialmente pericolosi per la pubblica sicurezza?

L’obiettivo è bilanciare attentamente gli interessi coinvolti, perseguendo la sicurezza collettiva senza incidere sulle libertà che rappresentano il cuore pulsante e il tesoro del costituzionalismo moderno. È un fine oltremodo ambizioso e difficilissimo perché, tra gli altri, incombe il pericolo della strumentalizzazione. Il rischio è che con lo scopo dichiarato di proteggere dal terrorismo si regolino situazioni politiche delicatissime ma non emergenziali, bensì strutturali per le società contemporanee, come la questione migratoria, che merita una riflessione mirata.

Carla Bassu, 27 ottobre 2023

Lobbismo e democrazia

La rappresentanza di interessi plurali nei circuiti decisionali è un aspetto fisiologico della democrazia. Stabilire riferimenti chiari per regolare il dialogo tra portatori di interessi privati e decisore pubblico è un modo per potenziare il circuito democratico che purtroppo al momento è a rischio di impasse. Tra le ragioni della crisi profonda in cui versa la fiducia nelle istituzioni e, più in generale, nella democrazia, vi è anche l’assenza di trasparenza nella dinamica dei rapporti tra privati e pubblico.

Il punto di partenza per una riflessione in materia di lobbying è che la rappresentanza di interessi è un fenomeno più che legittimo e fisiologico nell’ambito di un ordinamento democratico, in cui il decisore pubblico deve essere in condizioni di conoscere e tenere conto delle esigenze specifiche della molteplicità di categorie che necessariamente compongono il quadro di un ordinamento pluralista.

La parola chiave attorno alla quale dovrebbe costruirsi l’impianto di regole per la rappresentanza di interessi è trasparenza.

Nel formulare una normativa di settore occorre riflettere su quale modello si ritiene più adatto alla specificità italiana e più utile a soddisfare le esigenze degli attori presenti nel nostro Paese e nel pensare a un modello da importare, in toto o in parte, o anche da creare ex novo non si può trascurare il dato culturale e di cultura costituzionale che inevitabilmente influenza il funzionamento del sistema segnandone l’efficacia o meno.

Occorre una normativa essenziale, basata su un sistema premiale che imponga la trasparenza ma definisca nel contempo un sistema di incentivi che valorizzi l’emersione delle relazioni tra privati e pubblico le quali, si ribadisce, sono legittime e funzionali al buon andamento della democrazia. Investire dunque su una logica premiale ed equilibrata rispetto agli oneri e agli obblighi imposti ai portatori di interessi privati e ai titolari di incarichi pubblici. Sarebbe un approccio in controtendenza rispetto a quello attuale impostato su una chiave sostanzialmente sanzionatoria. Il sistema italiano attualmente prevede infatti regole dedicate alla fase patologica della pressione indebita esercitata dai privati sul processo di decisione pubblica.

Questo porta erroneamente a distorcere il concetto di lobbying portando a identificarlo con un fenomeno patologico, con un processo di generalizzazione ingiusto. Sarebbe bene chiarire la fattispecie della rappresentanza di interessi in senso positivo, nella sua dimensione fisiologica di strumentalità rispetto alla efficacia del meccanismo democratico.

La scelta più opportuna è dunque una normativa lineare, incentrata sulla trasparenza che si accompagni però con una campagna di comunicazione che metta in luce il valore che l’attività di lobbying esercita nell’interesse collettivo, non solo rispetto a esigenze private. Affinché sia possibile cogliere e apprezzare il valore di utilità generale che l’attività di lobbying esercita nel contesto democratico è indispensabile che l’azione di rappresentanza di interessi sia resa limpida e aperta, con regole chiare e stringenti.  Sarebbe necessaria una vera e propria campagna di educazione alla trasparenza.

Sull’affaire Vannacci: non c’è libertà senza responsabilità

Quando l’ormai celebre generale Vannacci ha messo su carta le proprie opinioni, rendendole pubbliche ed esponendole al dibattito e al mercato delle idee, ha esercitato la propria libertà di manifestazione del pensiero: questo è poco ma sicuro.

L’art. 21 della Costituzione italiana è chiaro nel riconoscere a tutti e tutte il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Si tratta di una prerogativa piena - la cui formula ampia riflette l’esigenza di restituire ai singoli libertà compresse in epoca pre-repubblicana - ma non illimitata.

In una democrazia, infatti, nessun diritto è tiranno e ogni libertà è soggetta a vincoli derivanti dal rispetto delle altre persone e delle leggi dello Stato. Soprattutto, non c’è libertà senza responsabilità e per questo restrizioni della libertà individuale si possono applicare in ragione dello status o della professione, come previsto dall’art. 98 della nostra Carta fondamentale che ammette limitazioni, stabilite con legge, alla iscrizione ai partiti politici per magistrati, militari e diplomatici. È questo l’aspetto che rileva nella vicenda che ha attirato l’attenzione dei media, scatenato polemiche politiche e suscitato reazioni istituzionali: oltre e più che il merito delle opinioni contenute nel volume diventato best seller grazie al clamore suscitato conta l’identità e il ruolo dell’autore. Il punto della disputa è legato ai limiti possibili o eventuali cui la libertà di espressione può essere soggetta in relazione al ruolo, alla posizione istituzionale e alla capacità di influenza di chi la esercita.

Nel caso specifico, il cittadino Roberto Vannacci può esprimere la propria opinione in merito a omosessualità, femminismo, ruolo delle donne nella società, assunti requisiti di italianità e finanche rivendicare il diritto di odiare ma il generale al comando dell’Istituto geografico militare deve tenere conto della posizione che occupa. In una democrazia, infatti, libertà fa rima con responsabilità e i due termini sono connessi inscindibilmente: se ciascuno gode della libertà di esprimersi non tutte le parole hanno lo stesso peso specifico. C’è un confine tra legittima manifestazione del proprio pensiero e diffusione di messaggi pericolosi, suscettibili di istigare all’odio, a maggior ragione se espressi da chi gode di un ruolo pubblicamente riconosciuto.

Dalla prospettiva dell’osservatore costituzionale la questione si declina su quattro direttive corrispondenti ad altrettante parole chiave dell’impianto di una democrazia: libertà, legittimità, opportunità e responsabilità. Il generale Vannacci, in quanto titolare dei diritti civili riconosciuti dall’ordinamento democratico ha la libertà di esprimere le proprie opinioni e ha legittimamente deciso di pubblicare un volume assumendosi la responsabilità di quanto sostenuto. Niente da rilevare se “Il mondo al contrario” fosse stato un libro di giardinaggio o numismatica ma il contenuto del volume affronta temi cruciali e sensibili, su cui non si può lasciare spazio a fraintendimenti. Per questo, quanto sostenuto non può essere valutato prescindendo dalla considerazione della carriera e del ruolo pubblico di chi ha voluto diffondere il suo pensiero. C’è dunque una questione di opportunità ma, soprattutto, rileva il profilo della responsabilità che investe il militare titolare di funzioni istituzionali anche quando veste i panni di scrittore.

 Carla Bassu, 30 agosto 2023

Politica vs. magistratura (e viceversa): separare le carriere per porre fine al conflitto?


Attualmente, in Italia, i magistrati si distinguono solo in base alla funzione che svolgono: giudicante,  e requirente (esercitata dai pubblici ministeri). Nel dibattito italiano – viziato da tensioni trentennali tra magistratura e politica – le posizioni di massima sono riassumibili in due fronti contrapposti: chi ritiene che la separazione delle carriere sia una misura necessaria per riequilibrare un sistema sbilanciato a favore del potere giudiziario e chi, al contrario, teme che la separazione metta a repentaglio la indipendenza della magistratura. Il dibattito è – forse inevitabilmente – influenzato dalle vicende di cronaca giudiziaria e questo non è un bene nel momento in cui si affronta una ipotesi di riforma che tocca i cardini della nostra democrazia e ha una incidenza di rilievo sulla vita di ognuno. Il tema della separazione delle carriere, infatti, presenta due piani di discussione: uno squisitamente tecnico e uno di più ampio respiro politico. Il primo sforzo da fare dovrebbe essere sottrarre il tema alla ribalta mediatica e portarlo nelle aule, dei tribunali e del Parlamento, per coinvolgere e ascoltare chi quotidianamente vive la routine processuale e ha cognizione di causa delle dinamiche della giustizia, dei punti di forza e delle criticità del sistema.

Dal punto di vista tecnico l’aspetto cruciale è: la separazione delle carriere in magistratura è coerente con il nostro impianto costituzionale? Una volta risposto a questo quesito di base, resta alla politica la legittima scelta di merito rispetto alla opportunità e alle possibili conseguenze di una riforma che preveda carriere (e non solo funzioni) separate nella magistratura italiana.

Rispetto al profilo tecnico il diritto comparato offre un segnale rassicurante, dimostrando che la separazione delle carriere non è di per sé indice di carenza democratica o di squilibrio dei poteri. Ne sono prova i casi di Germania, Spagna e Portogallo in cui le carriere sono separate eppure i principi dello stato di diritto non sono in discussione, perché nell’alchimia delle democrazie costituzionali l’equilibrio dei poteri è assicurato da un reticolo fitto di elementi di natura diversa, composto da norme scritte, convenzioni, prassi e cultura istituzionale. È dunque possibile prevedere modelli di carriere separate in cui il bilanciamento dei poteri sia salvaguardato nel rispetto del principio Montesquieiano che ispira il costituzionalismo contemporaneo. Sono i contrappesi, gli elementi di contesto e l’interpretazione più o meno strumentale del ruolo dei diversi poteri nella e della reciproca relazione a fare la differenza.

Prendiamo a esempio i modelli della magistratura della Francia, il cui la carriera è formalmente unica e il CSM è distinto in due sezioni, e della Germania, in cui le carriere sono separate e non esiste un vero e proprio organo di autogoverno. I due ordinamenti, opposti dal punto di vista della organizzazione dei ruoli sono accumunati dal modello di pubblico ministero di natura burocratica, ossia rispondente per configurazione giuridica allo schema delle altre amministrazioni pubbliche, a differenza di quanto accade nelle esperienze anglosassoni. Ebbene, in entrambi i casi il pubblico ministero è sottoposto all’esecutivo. L’unicità della carriera francese e dunque la mera differenza funzionale esistente tra magistrati di parquet (requirenti) e di siège (giudicanti) non sottrae i primi al condizionamento diretto del Ministero della Giustizia. In Germania il pubblico ministero è a tutti gli effetti un organo della amministrazione, gerarchicamente soggetto al potere esecutivo, ma questo ha poco a che fare con la separazione delle carriere perché – come dimostra il caso dei cugini d’Oltralpe - è ben possibile esercitare ingerenza politica anche su pubblici ministeri appartenenti a magistratura a carriera unica. Tutto questo per dire che non ci sono ostacoli tecnici pregiudiziali alla separazione delle carriere, che è una scelta possibile se si ritiene che risolva almeno in parte i problemi del sistema giudiziario italiano (i quali - come è ben noto - sono molti e diversi, a partire dalla durata dei processi, del deficit di organico etc). Si tratta di una scelta politica che, come tutte le scelte politiche in un sistema democratico, dovrebbe essere effettuata con legittimo spirito di parte ma senza cedere a interessi corporativi e – soprattutto – dopo aver ascoltato, opportunamente considerato e bilanciato le ragioni e gli interessi di tutti i soggetti coinvolti: magistrati, avvocati, organi amministrativi dell’apparato giudiziario, cittadinanza.

Nell’ambito della discrezionalità politica, suffragata dal supporto dei tecnici, sono molte le opzioni che possono essere intraprese per comporre il pacchetto di accorgimenti, contrappesi e misure di salvaguardia che concorrono in maniera organica a preservare l’equilibrio del sistema e la separazione dei poteri in un regime di bilanciamento. Per esempio, preoccupa che un sistema di formazione differenziato possa compromettere la pienezza della cultura giuridica di chi compone i diversi ranghi della magistratura? Nulla vieta che si conservi un percorso unico di educazione delle professioni giuridiche, anche a fronte di carriere separate in magistratura, come accade in Germania nonostante le carriere dei magistrati in ruolo siano separate. I tedeschi prevedono infatti un cursus formativo comune per tutte le professioni legali, a partire dalla laurea in giurisprudenza cui segue un primo esame di stato seguito a due anni di praticantato che può essere effettuato presso organi giudiziari, nelle sedi di amministrazione della giustizia o negli studi legali, dopodichè si affronta il secondo esame di stato indirizzato alla carriera che si intende perseguire. Stesso discorso vale per l’iniziativa dell’azione penale, che può essere conservata in regime di obbligatorietà anche con carriere separate, ovvero mitigata o resa facoltativa come accade in Francia a carriere unite o ancora, inquadrata in una cornice di opportunità, come accade nel modello tedesco di carriere separate.

Quello che conta è non introdurre misure spot, non inserendole in un contesto organico armonizzato, e intendendole come soluzioni miracolose. Le formule magiche universali nel diritto non esistono; ciascun ordinamento deve prevedere composizioni chimiche ad hoc, appositamente calibrate in ragione del contesto di riferimento.

Carla Bassu, 29 luglio 2023