La Costituzione prêt-à-porter

Pensieri su diritti, istituzioni e vita quotidiana 

 

Chi sono 

Carla Bassu, sassarese, studio e insegno il diritto pubblico comparato. Figlia, sorella, moglie e mamma orgogliosa, inseparabile dal fedele Fiji. Sportiva praticante, credo nel valore dello sport come terreno di miglioramento e sana competizione con sé stessi, prima che con gli altri. Globe-trotter precoce e lettrice vorace, conservo e coltivo la curiosità dell’infanzia. Militante delle libertà fondamentali e appassionata sostenitrice delle battaglie per le pari opportunità, aspiro a crescere mia figlia libera dagli stereotipi e consapevole che tutto si può fare.



Fascista è chi fascista fa

Perché nel 2024 qualcuno in Italia fatica ancora a dichiararsi pacificamente antifascista?

E allora il comunismo? Si sente spesso replicare. Che problema c’è ad ammettere che i regimi comunisti, dall’Unione sovietica in poi, hanno fallito nell’ideale dichiarato, avvilendo le libertà individuali e risultando incompatibili con il modello di democrazia costituzionale.

La democrazia, pur imperfetta e piena di contraddizioni, è la migliore tra i sistemi di governo sperimentati finora e si pone in netto contrasto con i dettami del fascismo e del socialismo reale.

Come si pretende di andare avanti e coinvolgere le nuove generazioni nella politica sana, rendendole protagoniste del dibattito pubblico, quando si è ancorati a irragionevoli argomenti ideologici che impediscono di prendere posizione su realtà evidenti, acclarate dalla storia e assunte in forma scritta e vivente dalla nostra Costituzione.

Piaccia o no la Repubblica italiana si fonda sull’antifascismo inteso nel senso di rifiuto netto e radicale di forme di limitazione delle libertà individuali e collettive per ragioni politiche o ideologiche e di intrusione nella vita privata dei singoli.

Il fascismo non ammette pluralismo, si basa sulla omologazione e sugli stereotipi (uomo macho capofamiglia, donna angelo del focolare), confonde l’ordine con l’annichilimento delle differenze e non contempla le libertà di espressione individuale, politica, religiosa, linguistica che colorano la nostra democrazia. Il fascismo è monocolore così come il comunismo che, partendo da presupposti diversi, si è tradotto in forme simili di imposizione e compressione della libertà.

La nostra Costituzione è contraria a ogni regime illiberale sia esso di matrice fascista o comunista. Il sillogismo vuole che se si è democratici e liberali non si può essere fascisti, né sovieticamente comunisti, perché entrambe le categorie si pongono come contraddizione in termini rispetto alla democrazia.

I principi democratici sono chiari e contrastano senz’altro con l’esperienza degli Stati comunisti ma le Costituzioni sono documenti storici e quella italiana è storicamente, profondamente antifascista perché scritta da chi (cattolici, liberali, radicali, comunisti) ha vissuto il fascismo sulla propria pelle e aveva la priorità di salvaguardare l’Italia del futuro.

Buon 25 aprile in un’Italia, libera repubblicana e democratica.

Carla Bassu, 25 aprile 2024

In Italia si può chiudere una scuola per Ramadan? Riflessioni tra identità costituzionale e senso pratico

A Pioltello, provincia di Milano, ha suscitato grande clamore la scelta di un’amministrazione scolastica che - esercitando la discrezionalità consentita per gestire in autonomia alcuni giorni del calendario didattico – ha stabilito la chiusura in occasione della celebrazione della fine del Ramadan, onorata da gran parte degli scolari del comprensorio che è frequentato da una popolazione eterogenea e multietnica.

Chiunque abbia preso parte a un consiglio di istituto sa che tra le sedute più animate vi è quella in cui si deve decidere la distribuzione dei giorni di chiusura liberamente assegnati alla scelta delle scuole, in relazione a esigenze pratiche e contestuali che variano in ogni realtà. Solitamente questi giorni liberi vengono usati per creare ponti tra festività comandate e la discussione può accendersi tra chi preferisce un giorno di vacanza in più a margine di carnevale, Pasqua o tra venticinque aprile e primo maggio. Le valutazioni alla base di queste opzioni sono le più varie e non possono comunque prescindere dal presupposto che prevede il rispetto del tetto minimo di giorni di lezione, che deve essere in ogni caso garantito.

Nel caso di specie, come chiarito dalla dirigenza, la scelta della scuola lombarda è stata dettata da ragioni pratiche e dall’esigenza di razionalizzare l’attività scolastica compromessa di fatto dall’assenza massiccia della componente studentesca di religione musulmana. Tuttavia, vi è chi ha ravvisato nella circostanza una sorta di cedimento di fronte a tradizioni non riconducibili allo sfuggente concetto di “italianità”. Chiudere la scuola in occasione di una ricorrenza non cattolica rappresenterebbe insomma un tradimento della identità nazionale.

Devo ammettere che anche dopo un’attenta ricognizione dei principi e dei valori che esprimono lo spirito della Repubblica e sono raccolti ed esplicitati nella Carta costituzionale non mi è chiaro in che modo questa vacanza imposta contrasti con il patrimonio identitario italiano.

È stato forse violato il principio di laicità dello Stato? La libertà religiosa? Il pluralismo che riconosce a ogni persona il diritto di esprimere opinioni e attitudini nel rispetto altrui?

L’identità del popolo italiano che esercita la sovranità nel rispetto delle forme e dei limiti dettati dalla Costituzione Repubblicana affonda le radici nella cultura liberale che, dalle Rivoluzioni americana e francese in poi, riconosce e rivendica i principi di uguaglianza formale e sostanziale e i diritti civili che devono essere riconosciuti a tutti e tutte, a prescindere dal genere, provenienza etnica o sociale, nazionalità o religione.

La scuola pubblica, in quanto luogo di trasmissione di conoscenza, confronto, crescita e apprendimento nel senso più ampio è un fondamentale strumento costituzionale, manifestazione dello Stato sociale che si fonda su principi condivisi e non derogabili. L’istituto di Pioltello, forse più di tanti altri sul territorio nazionale, è crogiolo di culture, origini, voci, tradizioni e nel promuovere una integrazione basata sulla conoscenza reciproca favorisce l’inclusione risultando – come chiarito dal Presidente Mattarella – in linea con la missione costituzionale.

Chiudere una scuola per un giorno, nel rispetto dei requisiti della normativa vigente, riconoscendo una situazione di fatto (assenza di larga parte degli iscritti) che corrisponde al godimento di un diritto garantito dalla Costituzione (libertà di religione) non comporta nessuna abdicazione o rinuncia al patrimonio tradizionale e culturale che rimane personale, individuale prima che familiare o collettivo e che fino a prova contraria, in Italia, trova pieno riconoscimento e salvaguardia. Il resto è tempesta politica, scatenata in un bicchiere di sensibilità plurale e senso pratico, che niente ha a che fare con l’ideologia.

Carla Bassu, 27 marzo 2024

Combattere l’astensionismo per migliorare la democrazia

Le elezioni regionali sarde della scorsa domenica, 25 febbraio, suscitano ampi e diversi spunti di riflessione ma c’è un aspetto che, tra i tanti, reclama attenzione: la percentuale di persone che non è andata a votare. Quasi la metà dell’elettorato sardo non si è recato alle urne.

Nella democrazia italiana il voto assume le fattezze di un “dovere civico”, non un obbligo vero e proprio perché se così fosse l’astensione non giustificata comporterebbe una sanzione, come accade in Belgio o in Australia per esempio. Si tratta però di un comportamento fortemente raccomandato dall’ordinamento perché sulla partecipazione del popolo alla selezione dei propri rappresentanti si fonda la legittimazione dell’ordinamento istituzionale e del sistema democratico. In realtà il voto è soprattutto un diritto, conquistato con fatica e sangue dalle generazioni che ci hanno preceduto e che hanno lottato per ottenere il potere di contribuire con la propria scelta alla selezione della classe dirigente. Le elezioni, di qualunque ordine e grado, sono il momento di massima espressione del principio democratico e rappresentano la manifestazione plastica del potere che ciascuno ha di influenzare in parte minima ma non ininfluente la qualità e l’indirizzo delle nostre istituzioni. Votando scegliamo chi è chiamato, per un determinato periodo di tempo, a compiere in nostra vece decisioni che hanno un impatto sulla vita di tutti e tutte. Rinunciare al voto significa arrendersi al volere altrui.

La politica altro non è se non riflessione, gestione e decisione sui più diversi ambiti della cosa pubblica e ci riguarda nostro malgrado. Lasceremmo mai che nel condominio in cui viviamo i nostri vicini decidano senza interpellarci sugli spazi comuni? A tutti i livelli, in una realtà democratica, le decisioni sono prese secondo il principio di maggioranza ma la partecipazione deve essere garantita e le minoranze ascoltate e considerate.

Il dato ormai conclamato e tristemente crescente dell’astensionismo elettorale ci dice che molti non sono interessati alla partecipazione politica o, peggio, pensano che il proprio voto non sia davvero rilevante nella determinazione delle decisioni pubbliche. Si tratta di un grande fallimento per la democrazia che non deve essere accettato come un dato di fatto ma dovrebbe essere interpretato come un allarme potente. Alla base dell’astensionismo c’è sicuramente una forte delusione e disillusione, alimentata dalla incapacità dei partiti più e meno tradizionali di raccogliere e veicolare le esigenze della collettività, dando risposte efficaci. Per riportare le persone alle urne occorre intanto riconquistarne la fiducia con comportamenti virtuosi che mostrino l’interesse esclusivo e genuino per il bene comune. Trasparenza e democraticità nella vita interna dei partiti è un primo passo cui dovrebbe associarsi un’opera di sensibilizzazione e formazione civile sin dai primi anni di vita. Bisogna lavorare per dimostrare che la politica non è qualcosa di lontano o altro da noi ma ci riguarda direttamente e perciò dobbiamo rivendicare il nostro ruolo rispetto alle scelte collettive e pretendere un percorso politico lineare e pulito, ricordando il potere grande che risiede nella possibilità di negare il nostro voto a chi non si comporta bene o, semplicemente non ci piace o non ci piace più.

Tutt’atro discorso vale invece per coloro i quali vorrebbero ma non possono votare, perché per esempio costretti fuori sede nell’ impossibilita di sostenere i costi di un viaggio per tornare a casa. Queste persone devono essere messe nelle condizioni di godere del diritto di elettorato attivo e le istituzioni hanno il dovere di agire per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio di una prerogativa fondamentale, lo dice la Costituzione.

 

Carla Bassu, 28 febbraio 2024

Leadership carismatiche e sindrome del follower

Il 2024 sarà un anno elettorale: in Italia e nel mondo milioni di persone saranno chiamate a esprimersi per legittimare organi monocratici e collegiali, con funzioni e poteri differenti, secondo le più varie modalità.

Ogni voto depositato liberamente e scientemente in un’urna elettorale è una coccola per un ordinamento democratico, che trova nella sovranità popolare e nel principio di maggioranza legittimazione e regola di azione.

Tuttavia, la vita democratica non si esaurisce certo nel momento elettorale: l’elezione dei soggetti titolari del potere pubblico è uno degli elementi caratterizzanti la democrazia ma di per sé non esaurisce affatto la categoria complessa e sfaccettata di un sistema democratico, che si fonda anche sul rispetto delle minoranze, sulla separazione dei poteri e sulla garanzia dei diritti e delle libertà.

In particolare, in questi tempi in cui si discute di elezioni presidenziali (USA) e di prospettive di premierato (Italia) occorre specificare che democrazia ed elezione diretta non sono la stessa cosa e che non necessariamente la scelta popolare del/la leader è sufficiente a valorizzare il principio democratico. L’elezione diretta della premiership premia il carisma del/la candidato/a; chi conquista il voto popolare, spesso anche oltre gli orientamenti o le ideologie individuali (come dimostrano i casi di governi divisi o coabitazioni nei sistemi presidenziali o semipresidenziali) è il/la leader carismatico/a, capace di attirare, affascinare, ipnotizzare, conquistare le folle. Ebbene, nel nostro Paese, con un panorama politico e partitico strutturalmente frammentato e in questa fase particolarmente polarizzato, a mio parere, il carisma non è la caratteristica più importante in una figura istituzionale chiamata a determinare l’indirizzo politico e rappresentare la locomotiva del governo. Il carisma è evidentemente necessario e determinante ma ci sono altre capacità che sono essenziali in un leader di governo (abilità di mediazione, visione, conciliazione e competenza politica) e che rischiano di essere trascurate o non sufficientemente fatte risaltare con una elezione diretta. Occorrebbe legittimare una maggioranza capace di esprimere una guida affidabile, non eleggere un capo, a prescindere.

Ma per disinnescare l’effetto plebiscitario e scongiurare sindrome del follower che trova humus favorevole in una cittadinanza delusa e disillusa dalla politica intesa come “kasta”, bisogna instaurare un nuovo legame di fiducia tra governati e governanti e investire sui luoghi di incontro e intermediazione delle istanze individuali e pubbliche. Qui entrano in gioco i partiti, creature che negli anni hanno lavorato molto per perdere credibilità e deludere l’elettorato, che ha progressivamente e inesorabilmente penso fiducia. E’ importante restituire dignità ai mediatori del messaggio politico, percepiti diffusamente come luoghi, di gestione del potere fine a sé stesso, di negoziazioni non trasparenti, di “amichettismi” utili per ottenere favori e distribuire poltrone. Occorre ricordare alle persone la vera vocazione dei partiti che sono veicoli di democrazia, previsti dalla Costituzione e indispensabili nella loro funzione di intermediazione e traduzione delle istanze collettive, a maggior ragione in questi tempi di populismo e disintermediazione mediatica. La credibilità dei partiti però può essere riconquistata solo con una assunzione di responsabilità che porti alla introduzione di regole rigorose di trasparenza e democrazia interna che allontanino l’allure clientelare. Una legge, dunque, che finalmente dia attuazione all’art. 49 della Costituzione e nell’attesa codici rigidi di autoregolamentazione su base volontaria che disciplinino in senso democratico la vita interna dei partiti con attenzione alla parità di genere.

Un sistema politico caratterizzato da partiti impegnati a raccogliere e veicolare le esigenze delle persone e di formare classe dirigente competente e capace di creare un legame di affidamento autentico con la comunità, lontano da ogni dinamica clientelare è la base di una democrazia matura. In un contesto simile il/la leader carismatico/a è un plusvalore e non un’unica figura su cui si concentrano le speranze dell’elettorato e i poteri utili a salvare la patria.

Beato il Paese che non ha bisogno di leader carismatici.

Carla Bassu, 30 gennaio 2024 

Riforma costituzionale: due proposte, tante contraddizioni

1.In premessa e a presupposto della riflessione che segue segnalo che condivido i presupposti e gli obiettivi dichiarati dalle proposte di riforma costituzionale (ddl.  935 e 830, rispettivamente di iniziativa governativa e del senatore Renzi) entrambe orientate a promuovere governi di legislatura.

È innegabile che la macchina istituzionale italiana sia inceppata e che questo comporti un impatto negativo sul processo decisionale, ma anche sulla competitività generale del paese sotto il profilo geopolitico, economico e sul piano internazionale. Con riguardo alla forma di governo, da almeno quaranta anni si discute di modificare il sistema per introdurre i meccanismi di razionalizzazione auspicati già in sede costituente. Le proposte di riforma che si sono succedute nel tempo sono sostanzialmente allineate rispetto alla esigenza di una razionalizzazione dei rapporti tra Governo e Parlamento e un rafforzamento del ramo esecutivo, ritenuto funzionale alla realizzazione di obiettivi di stabilità e governabilità.

Da parte mia nessun dubbio sulla necessità di intervenire con misure mirate che tengano conto non solo del dettato formale della regola che si intente introdurre, né del messaggio che si invia all’elettorato tramite la comunicazione o la “narrazione” della innovazione, quanto dell’impatto effettivo della nuova cornice costituzionale, che è influenzato in misura determinante dalle circostanze di contesto, dalla cultura istituzionale, dalla dinamica politica: tutti fattori solo parzialmente prevedibili che – a fronte della inevitabile imperscrutabilità – richiederebbero un sistema flessibile e adattabile alle diverse situazioni che l’esperienza – italiana ma non solo – dimostra si potrebbero verificare. Stabilire regole rigide che ingabbino il sistema per evitare che si verifichino manifestazioni patologiche che ben abbiamo presente (dalla instabilità, al transfughismo, alla estrema fluidità delle maggioranze) rischia di rivelarsi controproducente perché le regole rigide si adattano a situazioni precise e predefinite, mentre la realtà – e la storia dei nostri 68 governi in 75 anni di Repubblica lo dimostra – spesso ci sorprende.

 

2. Nello specifico, nei disegni di legge ora all’esame del Senato si individua nell’elezione diretta l’elemento di stabilizzazione e valorizzazione del principio democratico e della rivalutazione del potere di scelta del popolo ma a mio parere questo è messo in discussione:

A)   dal contesto politico che contraddistingue la realtà italiana;

B)   da alcune misure introdotte in particolare dal ddl governativo, che in certi aspetti pare contraddittorio rispetto alle finalità perseguite.

 

A).Con riguardo al primo profilo, di Costituzione materiale, l’elezione diretta del capo dell’esecutivo promuove stabilità e dunque governabilità solo nelle società politicamente pacificate, con sistemi solidamente e radicatamente bipolari o proprio bipartitici, come accade per esempio in UK dove l’elemento di equilibrio e razionalizzazione è rappresentato dalla presenza (nei fatti, non ottenuta con l’imposizione di regole formali) di partiti forti che conservano nella sostanza l’affidamento dell’elettorato, dato che ha consentito negli ultimi mesi l’avvicendamento di tre guide diverse a capo del governo britannico, tramite un meccanismo tutto interno al partito di maggioranza; ma questo è proprio quello che si intende evitare con questa riforma, volta dichiaratamente a restituire il potere decisionale al popolo per sottrarlo ai partiti e alle mosse di palazzo.

Ebbene, in scenari politici conflittuali e polarizzati come il nostro, dove anche all’interno delle coalizioni di maggioranza e opposizione non c’è pieno allineamento politico e ideologico, l’elezione diretta si dimostra divisiva, non pacificatrice, e si presta a esacerbare più che quietare là conflittualità.

 

B.) Elementi in contraddizione rispetto agli obiettivi derivano poi da due innovazioni proposte nel ddl 935 e riguardano specificamente: - la norma “anti ribaltone” e il premio di maggioranza senza soglia introdotto in Costituzione.

- La norma cosiddetta antiribaltone introdotta dal ddl di iniziativa governativa, depotenzia fino ad annullare l’effetto “stabilizzatore” della elezione diretta, visto che toglie lo scettro del potere all’elettorato per restituirlo ai partiti (cosa che invece si aspira più di tutto a evitare), che possono accordarsi per sostituirlo e annichilire dunque la volontà popolare a favore di quella delle forze di maggioranza.

- Come segnalato (punto A.), affinché l’elezione diretta del premier garantisca risultati non solo nominali in termini di promozione di stabilità effettiva e di una sostanziale continuità di indirizzo politico occorre un sistema politico fondato su pochi e solidi partiti e su coalizioni coese che godano di un sostegno forte e radicato nell’elettorato. Secondo il ddl. 935 questo risultato dovrebbe essere garantito dal premio di maggioranza molto alto assegnato per prescrizione costituzionale (altro aspetto di criticità), ma anche questo si presta a distorcere la volontà popolare e a creare potenzialmente una maggioranza artificiosa, grazie a un premio senza soglia – in serio odore di incostituzionalità sulla base dell’orientamento della giustizia costituzionale in materia – che si presta a formare maggioranze non necessariamente corrispondenti alla posizione effettiva dell’elettorato, con un vulnus al principio di rappresentatività. Naturalmente questo aspetto può essere corretto con l’introduzione di una soglia ma, in generale, non inserirei riferimenti espliciti nel testo costituzionale, preferendo intervenire in sede di legge elettorale con una formula che non comprometta la rappresentatività del sistema pur promuovendo il principio maggioritario.

 

3. Vi sono ulteriori aspetti di criticità, a partire dall’impatto sulla sfera delle prerogative presidenziali, inevitabile anche nel ddl 935 in cui le funzioni del Capo dello Stato non vengono modificate formalmente. In realtà, in entrambi i casi, la figura del Presidente della Repubblica verrebbe ridimensionata nel suo ruolo di garanzia, dimostratosi prezioso nei, non rari, momenti di crisi. Di fronte a un premier eletto il Pdr perderebbe la funzione di mediatore, arbitro, motore di riserva pronto a estendere la fisarmonica nei momenti di impasse politica per ritrovarsi mero notaio e ratificatore, ridotto a simbolo, cosa che oggi non avviene grazie all’articolazione flessibile di prerogative maturate in via di convenzioni e prassi costituzionali.

Trovo contraddittoria la previsione della fiducia che il premier eletto dovrebbe chiedere al Parlamento e che dovrebbe essere espressa nei confronti dell’intero governo: elezione e fiducia iniziale sono percorsi di legittimazione paralleli, diversi, che non ha senso sommare.

Nel ddl. 935 alla elezione diretta non corrisponde un consolidamento della posizione di forza del premier – che resta peraltro Presidente del Consiglio - in termini di aumento delle prerogative come: la fiducia diretta alla sua figura istituzionale e non all’intero organo collegiale di governo; la possibilità di revocare i ministri e di chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle camere.

L’elezione diretta, da sola è una misura inefficace rispetto all’obiettivo di stabilizzazione ed è associata alla possibilità di sostituzione del Presidente del Consiglio eletto per opera della maggioranza, sebbene nel perimetro della stessa compagine con la scelta di un parlamentare. Questo si presta a sminuire il voto popolare e innesca un alto tasso di conflittualità interno alla maggioranza che smentisce nei fatti le finalità dichiarate di stabilità.

 

4. In sintesi, non è efficace rispondere con regole costituzionali a problemi di natura politica che nascono e si sviluppano a prescindere dalle norme formali. Occorre invece coltivare e promuovere processi virtuosi che riportino le persone al centro del circuito politico in modo sostanziale, grazie a una partecipazione costante e consapevole alle dinamiche decisionali, non soltanto con una scelta elettorale rivolta a una persona ogni cinque anni.

Avendo chiaro questo obiettivo è possibile intervenire con misure che promuovano la stabilità tenendo conto della realtà, preservando l’equilibrio degli organi costituzionali e incidendo sulla figura guida dell’esecutivo senza necessariamente modificarne il sistema di legittimazione indiretta. In particolare, dovrebbe essere dedicata massima attenzione all’impatto effettivo di norme che formulate in teoria con una determinata finalità, per ragioni di contesto, ottengono in concreto effetti ben diversi rispetto a quelli auspicati.

Carla Bassu, 12 dicembre 2023

 

*Il testo riproduce i contenuti dell’audizione tenuta di fronte alla I Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica, il 5 dicembre 2023