Donne al vertice: misure di emergenza per onorare il merito  

Le donne non sono una minoranza, rappresentano circa la metà della popolazione che, nel nostro Paese e non solo, risulta primeggiare per risultati nelle scuole di ogni ordine e grado, negli studi universitari e post-lauream salvo diventare categoria evidentemente svantaggiata nel momento in cui ci si affaccia alla vita professionale e pubblica e, soprattutto, al circuito della rappresentanza politica.

Nella gran parte delle democrazie costituzionali esiste un problema di rappresentanza: poche donne nella stanza dei bottoni. I luoghi dove si esercita il potere decisionale sono ancora abitati prevalentemente da uomini.

La questione della presenza femminile nelle istituzioni dimostra che l’evoluzione sociale e culturale può essere molto lenta, tanto da rendere necessaria una spinta che acceleri il processo di sviluppo di una mentalità egalitaria. Talora può essere necessario invertire questo circuito e promuovere attraverso il diritto il cambiamento della società, in modo da renderla coerente con i principi e i valori sanciti nella Costituzione. Le azioni positive per la parità di genere sono iniezioni di principi attivi di uguaglianza nell’ordinamento, che agiscono come medicinali in caso di malattia, amari ma necessari. La cura è efficace solo se il farmaco è assunto per il periodo necessario a portare il sistema a regime. È fastidioso parlare di questi temi per chi, come me, crede fermamente che il merito debba essere il solo criterio cui improntare qualsiasi carriera ma non possiamo fare a meno di constatare che una democrazia, se non è paritaria non è democrazia. In generale, a mio parere, le affirmative actions (siano esse quote, doppia preferenza di genere, limiti nella composizione delle liste) di per sé sono un male, perché denunciano l’esistenza di una situazione patologica. Qualunque tipo di azione positiva presuppone la sussistenza di una distorsione e dunque di un malessere all’interno della società, ma quando si ha una malattia non si può fare finta di niente, bisogna curarla.

Uno sguardo in prospettiva comparata mostra l’esistenza di diversi sistemi di promozione della parità di genere nella dinamica elettorale, previsti in ambito costituzionale; di normativa primaria nei sistemi elettorali o che agiscono indirettamente, per esempio subordinando i finanziamenti ai partiti al rispetto della parità di genere nelle candidature. Significative sono anche le misure di autoregolamentazione interne ai partiti che in alcuni casi intervengono nella fase di composizione delle liste.

Eppure, osservando le democrazie europee si evince che i Paesi che mostrano una presenza equilibrata di donne e uomini elette/i in Parlamento sono quelli che non contemplano azioni positive mirate alla rappresentanza paritaria. È il caso delle democrazie nordeuropee ma il dato è presto spiegato dall’evidenza che mostra come in questi ordinamenti la parità tra generi rappresenti prima di tutto una realtà socialmente e culturalmente consolidata ed essendo le istituzioni rappresentative lo specchio della compagine sociale non stupisce che riflettano una parità affermata nei fatti, che non ha bisogno di essere promossa o potenziata attraverso azioni specifiche. È una questione di uguaglianza formale e sostanziale: le azioni positive sono necessarie laddove a livello sociale e culturale la parità stenti ad affermarsi e si renda dunque necessario attivarsi per promuovere il cambiamento virtuoso, in una ottica di uguaglianza sostanziale. Le azioni positive, in questo senso agiscono come una sorta di doping sociale, utili per dare la spinta necessaria a ottenere il traguardo di una rappresentanza equilibrata, potenziando e velocizzando un sistema debole e lento. È vero anche che negli ordinamenti nordeuropei che ora vantano istituzioni rappresentative equilibrate il percorso per la parità è cominciato molto prima rispetto ad altrove; le quote sono state previste in passato e sono state eliminate una volta che il sistema è andato a regime. Così dovrebbe essere per tutte le azioni positive che concettualmente dovrebbero funzionare come strumenti di emergenza e decadere una volta compiuta la missione.

Nel panorama comparato suggestivo è il caso dell’India: qui nel 1993 è stata introdotta una modifica costituzionale volta a incrementare la esigua presenza femminile in politica che riserva alle donne un terzo dei seggi in ogni amministrazione locale. Non solo: nella regione del Bengala Occidentale è previsto che un terzo delle amministrazioni locali in ogni elezione venga selezionata per essere guidata da leader donna in modo casuale, in sostanza si attribuisce di default a una donna il ruolo di pradhan, ossia capo della comunità. La scelta dei villaggi selezionati per essere diretti da una donna è casuale e una ricerca sulla qualità della leadership ha dimostrato che la percezione della cittadinanza rispetto alla efficacia della guida politica femminile è del tutto diversa nei gruppi sorteggiati per essere guidati da una donna e nei restanti. Gli elettori che hanno sperimentato la guida al femminile hanno riconosciuto che le donne sono leader capaci, al contrario da quanto affermato dagli abitanti dei villaggi guidati sempre da uomini. Ancora, la presenza di donne in ruoli di comando ha cambiato in maniera sostanziale il modo di vedere, le aspettative e le aspirazioni dei genitori per le loro figlie e tale cambio di prospettiva ha avuto un riflesso nella scelta dei percorsi di istruzione per le bambine e le ragazze ed è in loro che confidiamo per un futuro più equo e meritocratico.

Carla Bassu, 28 febbraio 2021