Il nome della moglie. Discriminazione di genere e patriarcato nelle schede elettorali

La scorsa domenica sono andata a votare e, nel constatare nel registro elettorale il mio cognome corredato dalla dicitura «coniugata in» seguita dal cognome del mio amato consorte, ho segnalato che i dati non corrispondono alla mia anagrafica. Ho chiesto dunque agli scrutatori – già stressati per l’atmosfera Covid-19 – di annotare che il mio cognome è solo uno, quello originale. La questione era già emersa durante le ultime elezioni europee, aveva suscitato un certo clamore e attirato l’attenzione dei media, per essere poi prontamente accantonata all’avvicendarsi delle priorità, secondo l’ottica per cui c’è sempre «ben altro cui pensare».

Il nome è parte integrante dell’identità personale. Nome e cognome ci distinguono e ci identificano nella società già dai primissimi giorni di vita, ben prima che le caratteristiche fisiche e caratteriali ci rendano riconoscibili come individui. In particolare, il cognome oltre alla valenza squisitamente pratica assume valore giuridico e il meccanismo di assegnazione del “nome di famiglia”, che tradizionalmente prevede l’imposizione della linea paterna non è casuale bensì frutto di una particolare visione della società. In Italia come altrove, infatti, l’apposizione del cognome paterno riflette una struttura sociale storicamente patriarcale in cui il ruolo pubblico era riservato agli uomini “capifamiglia” e le donne passavano dalla tutela del padre a quella dello sposo del quale assumevano, a dimostrazione della “cessione” avvenuta anche il cognome.

Formalmente questo tipo di visione è stato spazzato via dalla Costituzione Repubblicana che sancisce il principio di uguaglianza e professa tra l’altro la parità morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.). Sorprende, a più di settanta anni dall’entrata in vigore della nostra Carta fondamentale, scoprire la resistenza di retaggi patriarcali, anacronistici e incompatibili con l’impianto costituzionale come quello lampante delle schede elettorali delle donne sposate.  

In primo luogo, preme sottolineare che non esiste in Italia una legge che prescriva alle mogli l’assunzione del cognome dello sposo, né potrebbe essere altrimenti, considerato che la Costituzione vieta ogni discriminazione irragionevole basata sul genere. Esiste invero una norma che prevede la possibilità per le donne coniugate di far seguire al proprio cognome quello del marito (art. 2 del D.P.R. n. 299 dell’8 novembre 2000, attuativo dell’art. 13 della legge 30 aprile 1999, n. 120 recante «Disposizioni in materia di elezione degli organi degli enti locali, nonché disposizioni sugli adempimenti in materia elettorale»). Si tratta evidentemente non di un obbligo bensì di una eventualità che si ritiene debba essere frutto di una espressa volontà da parte dell’interessata. In ogni caso persiste il dubbio sulla legittimità dal momento che si tratta di una prerogativa riservata alle donne e preclusa agli uomini, dunque effettivamente discriminatoria.

Perché? Chiedo, senza malizia, qualcuno può fornire una ragione giuridicamente fondata che giustifichi la previsione dell’aggiunta del cognome maritale per la moglie e non viceversa? L’unico motivo è il retaggio di una tradizione che ha valore solo in quanto tale e non può essere imposta alla collettività. Per intenderci, se personalità come Angela Merkel o Hillary Clinton hanno scelto di assumere il cognome del marito è sulla base di considerazioni meramente personali e non perché qualcuno l’ha loro imposto. D’altra parte, quotidianamente altrove nel mondo i mariti scelgono di assumere o associare al proprio il cognome della coniuge, non così nel nostro Paese. Non è possibile che in Italia si ritenga accettabile una differenziazione tanto evidente tra uomini e donne come l’assunzione del cognome del marito da parte della sposa dopo il matrimonio, senza condizione di reciprocità. Tale indicazione nelle schede elettorali deve essere stata frutto di un errore materiale cui si deve però prontamente porre rimedio.

L’amore e il rispetto coniugale non hanno niente a che fare con l’identità personale.



Carla Bassu 24 settembre 2020