La questione del cognome materno e diritti costituzionali alla prova del “benaltrismo”

Premessa al volume "Il diritto alla identità anagrafica. Il cognome materno tra personalità individuale e principio di uguaglianza", Editoriale Scientifica, Napoli 2021

Questo libro ha per me un significato particolare perché è frutto di un interesse scientifico suscitato da una vicenda personale. Ricordo che sin da adolescente mi era capitato di riflettere sul fatto che la regola, in Italia, fosse quella di trasmettere il solo cognome paterno e - forse non pienamente consapevole del fatto che fosse proprio impossibile scegliere diversamente, almeno per la prole di coppie sposate – pensavo che avrei voluto attribuire ai miei eventuali figli futuri anche il mio cognome. Molti anni più tardi, nel 2014, appena sposata, seguii con soddisfazione i lavori parlamentari di una proposta di legge che riformava il sistema di trasmissione del cognome impostandolo  su criteri di parità di genere, a seguito di pressioni del dibattito pubblico e, soprattutto, della giurisprudenza costituzionale stratificata nel tempo nonché di una sentenza della Corte Edu che aveva stabilito con chiarezza il contrasto dell’automatismo dell’assegnazione del patronimico con il principio di non discriminazione. Quando, più di un anno dopo rimasi incinta, constatai che il testo approvato in via definitiva dalla Camera giaceva ancora all’attenzione del Senato ma pensai che ulteriori nove mesi sarebbero stati sufficienti affinché l’iter compisse il suo corso e potessi avvalermi della nuova normativa. Cominciai comunque ad approfondire la materia, analizzando la disciplina vigente nel nostro ordinamento e confrontandola con quella dei Paesi europei e dei sistemi di common law, registrando il completo isolamento dell’Italia rispetto alle democrazie stabilizzate in cui l’eventuale presenza di profili discriminatori nell’assegnazione del cognome era stata diffusamente sanata.

Quello studio sfociò in un saggio, pubblicato nel 2016 sulla rivista Diritto Pubblico Comparato ed Europeo con il titolo «Nel nome della madre. Il diritto alla trasmissione del cognome materno come espressione del principio di eguaglianza. Un’analisi comparata» (C. Bassu, Nel nome della madre. Il diritto alla trasmissione del cognome materno come espressione del principio di eguaglianza. Un’analisi comparata, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, n. 3, 2016, pp. 545-582), in cui alla luce del diritto internazionale, della giurisprudenza costituzionale interna e delle Corti sovranazionali e della comparazione con altri ordinamenti, si evinceva come il legame inscindibile tra nome e identità individuale risultasse prevalente rispetto a eventuali esigenze amministrative rendendo indispensabile aggiornare il sistema di attribuzione del cognome nel nostro Paese al parametro dell’uguaglianza tra donne e uomini.

Mia figlia nacque alla fine del 2015 e la proposta di riforma definitivamente arenata in Senato costrinse mio marito e me ad avviare prontamente la procedura presso la prefettura della nostra città per ottenere l’affiancamento del mio cognome a quello del padre. Non nego il disagio e la frustrazione nel dover presentare istanza di «cambio cognome» per poter trasmettere alla mia bambina il matronimico, parte originaria della mia e della sua identità.

La procedura, pur agevolata di una serie di provvedimenti regolamentari volti a favorire il buon esito delle istanze ove orientate ad aggiungere il cognome materno a quello paterno, era lunga e complessa. A me premeva che la bambina ottenesse al più presto il suo cognome completo in modo da poter essere identificata subito con il nome che l’avrebbe accompagnata per la vita. Grazie alla pronta risposta degli uffici, forse favorita dalla mia pressante richiesta di informazioni e aggiornamenti (ai limiti della molestia), ottenemmo la variazione in otto mesi, in tempo perché la bambina facesse ingresso all’asilo nido con il doppio cognome. Tuttavia, i primi documenti di identità di nostra figlia – richiesti senza poter attendere la fine della procedura prefettizia avendo esigenza di viaggiare all’estero – la identificavano con il solo cognome paterno e ancora oggi capita di dover correggere uffici e amministrazioni (da ultimo la ASL) che riportano nei loro registri il solo patronimico.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 286/2016 - nell’ostinato silenzio del legislatore – ha aperto alla possibilità di affiancare il cognome materno a quello del padre già al momento dell’iscrizione all’anagrafe dei figli ma resta insoluto il punto della trasmissione del solo cognome della madre, almeno fino al prossimo intervento della Consulta, atteso dopo che nel gennaio 2021, in modo affatto raro e irrituale, la stessa ha richiamato la questione presso sé stessa.

Sono ben conscia che, anche a fronte di questo racconto, l’obiezione (che tante volte mi sono sentita rivolgere) è «ma c’è ben altro a cui pensare!». Ebbene, sicuramente – nè pretendo altrimenti – l’esigenza di allineare il sistema italiano di trasmissione del cognome al parametro costituzionale di eguaglianza e non discriminazione può essere percepito come meno urgente rispetto ad altre situazioni di ingiustizia persistenti nell’ordinamento. Tuttavia, a mio parere, tutte le iniquità devono essere eliminate dall’ordinamento e quella della impossibilità di trasmettere il cognome materno ai figli configura evidentemente una discriminazione a svantaggio delle donne incompatibile con i principi di eguaglianza e i diritti di identità non solo delle donne ma anche dei figli.

A chi invoca il rispetto di una tradizione innocua ribatto che le tradizioni sono importantissime e tanto belle perché non sono vincolanti ma si può scegliere se seguirle o meno. Diversamente una norma giuridica, in quanto tale obbligatoria per la collettività, deve essere equa e conformarsi ai dettami stabiliti con chiarezza dalla nostra Costituzione. Nel nostro ordinamento il genere di appartenenza non può essere un criterio di privilegio, non può essere un criterio accettabile per far prevalere irragionevolmente una posizione rispetto a un'altra e in questo senso il cognome non fa eccezione. Pensiamo a una situazione concreta e ricorrente in qualunque famiglia: tra le tante domande che quotidianamente un bambino o una bambina può rivolgere ai genitori ci sono quelle relative al proprio nome e cognome. Perché mi chiamo così? Perché ho il cognome di mio padre e non di mia madre?

Ebbene l'unica risposta sincera che in questo momento possiamo dare («perché tuo padre è maschio») semplicemente non è ammissibile né giustificabile alla luce dei principi del nostro ordinamento. È un’affermazione incompatibile con il nostro sistema costituzionale; è una risposta che non voglio dare a mia figlia e a nessuno e il decisore pubblico, più opportunamente il legislatore ma in extrema ratio anche la Corte Costituzionale, deve assumersi la responsabilità di cambiare il sistema per renderlo coerente con i principi fondanti della nostra democrazia.

Carla Bassu, 29 settembre 2021