La violenza contro le donne comincia ben prima di uno schiaffo. L’orgoglio della parità come antidoto agli abusi di genere
L’ennesimo episodio di violenza ai danni di una donna maturato nell’ambito di legami preesistenti dimostra che un inasprimento delle misure penali è insufficiente, serve agire con capillarità e rigore in via preventiva. Urge educare al rispetto e alla parità sin dalla primissima infanzia; stigmatizzare non solo i comportamenti violenti ma anche quelli paternalisti e apparentemente accudenti che nascondono invece volontà di controllo e prevaricazione. Le donne sono persone: non creature fragili da proteggere, non esseri eterei, non porcellane da rimirare ma esseri umani con caratteristiche e talenti che hanno diritto di esprimere al meglio, realizzandosi come individui e non in funzione di qualcun altro.
La violenza di genere è l’espressione cruenta di una guerra trasversale che miete quotidianamente vittime diverse per provenienza geografica e culturale, storia e attitudini ma accomunate dall’essere donna. Le molteplici forme di sopruso che gli esseri umani di sesso femminile subiscono nelle fasi della loro vita secondo una gradazione che va dal paternalismo, alla discriminazione, alla molestia fino all’abuso fisico sono espressione di una visione del mondo ancorata alla concezione arcaica, ma resistente anche nel subconscio, per cui le donne possono essere punite ove non rispondano allo stereotipo remissivo che le vuole compiacenti e subordinate. L’elemento di base che occorre tenere a mente per affrontare il tema della violenza di genere è l’iconografia standardizzata della figura femminile dedita a determinate mansioni e sostanzialmente funzionale al benessere della famiglia che a lungo, anche nelle democrazie occidentali, è stata avvalorata anche dalla dimensione giuridica. Basti pensare al caso italiano: qui per molto tempo nell’immaginario collettivo la figura della donna ideale è stata associata all’angelo del focolare e questa immagine non veniva stigmatizzata bensì avvalorata da una normativa che rifletteva la previsione di gerarchia di genere nell’ambito della famiglia e della società. Per molto tempo, nell’Italia repubblicana, il principio di eguaglianza è stato contemperato con il fine dell’unità familiare, sull’altare del quale è stato immolato. Sebbene la Costituzione del 1948 dedichi ampio spazio alla questione femminile (artt. 3; 29.2; art. 31.2; 37; 48; 51), fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, la prevalenza giuridica della posizione dell’uomo si manifestava nei tre principali ambiti della vita familiare: rapporti tra coniugi; rapporti patrimoniali e rapporti con i figli. La donna seguiva infatti la condizione civile del “capofamiglia”, ne assumeva il cognome, era tenuta a seguirlo ovunque egli ritenesse opportuno fissare la residenza ed era soggetta al dovere di coabitazione. Il marito era gestore e responsabile del patrimonio familiare e godeva di un regime sanzionatorio privilegiato in caso di adulterio. La patria potestà era formalmente affidata a entrambi i coniugi ma esercitata in via prioritaria dal padre, sostituibile dalla madre solo in caso di assenza o altro impedimento. Come corrispettivo per questi doveri di sottomissione alla volontà del marito, la donna aveva il diritto a essere mantenuta e protetta. Il nuovo diritto di famiglia muta l’impianto codicistico, affermando il principio secondo cui – per effetto del matrimonio – i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Scompare anche ogni riferimento alla patria potestà che però resta un concetto radicato nella mentalità comune. Questo gap profondo tra disciplina giuridica testuale e percezione reale ancora non è stato colmato. Presupposto per rispondere in maniera efficace alla violenza è una presa di coscienza, una assunzione di responsabilità da parte dell’ordinamento e un impegno concreto a trasformare la lettera della legge in misure effettive. Ancora in troppi ritengono che una donna debba essere comprensiva e paziente a prescindere, disposta a rinunciare alla volontà e alla libertà per compiacere o andare incontro al benessere del compagno, dei genitori, dei figli. Ma chi ci ama vuole il meglio per noi e non si sente sminuito bensì valorizzato nell’avere accanto una donna libera, forte, emancipata, alla pari.
La violenza di genere comincia prima di uno schiaffo e va ben oltre il maltrattamento fisico, nasce negli stereotipi profondamente radicati e ancora accettati che vogliono, in una coppia, l’uomo almeno un po’ più forte, più grande, più in carriera, più solido economicamente rispetto alla donna. Ma l’amore non è competizione, tantomeno sopraffazione, l’amore è complementarietà tra esseri umani che prima di tutto si rispettano.
Carla Bassu, 22 novembre 2023Articolo pubblicato su La Nuova Sardegna il 21 novembre