Le donne non sono ammortizzatori sociali

Se è vero che il grado di tutela dei diritti delle donne insieme con la presenza bilanciata dei generi nei ruoli strategici dell’economia e della società può essere considerato un indicatore di salubrità di una democrazia, il quadro clinico dell’Italia non può dirsi tranquillizzante e non solo a causa del Covid-19. La pandemia ha esacerbato aspetti di criticità preesistenti, esponendo allo sguardo dell’osservatore attento un sostrato culturale in cui l’eguaglianza di genere e le pari opportunità non risultano priorità.

Certamente la condivisione equa dei compiti è una realtà sempre più diffusa nelle famiglie ma è un’evidenza supportata dai dati che le donne risultano ancora maggiormente gravate dagli impegni domestici rispetto ai partner. Lo dimostra, in Italia, l’ultima indagine ISTAT sulla vita quotidiana dalla quale emerge che le donne nella fascia di età 25-45 anni, in coppia con figli, che risultano occupate al pari dei loro compagni, dedicano in media al lavoro familiare ogni giorno il 21, 6% del proprio tempo, a fronte del 9,5% dichiarato dagli uomini. Gli strumenti fino a ora previsti a supporto dei genitori che lavorano, come il bonus baby sitter, sono apprezzabili ma ben lungi dall’essere sufficienti a garantire soprattutto i diritti delle madri.

La questione che più preoccupa è che nel momento in cui si scrive manca una prospettiva di medio termine che consenta di pianificare il menage familiare in un’ottica di progressivo ritorno alla normalità. A differenza di quanto avviene altrove, in Italia ancora non è presente una strategia, anche generica o prospettica che metta in fila le priorità e le misure finalizzate a realizzarle. Questa lacuna è particolarmente evidente con riferimento alla questione scuola o alla cura delle bambine e dei bambini più piccoli. Le prime e tanto attese riaperture delle attività sono avvenute senza che ci fosse una contestuale predisposizione di interventi rivolti ai genitori che richiamati al lavoro hanno l’esigenza molto pratica di lasciare i figli in buone mani. L’estensione di alcuni giorni dei permessi di astensione dal lavoro per questioni familiari risulta una risposta frammentaria e del tutto inadeguata. Dal punto di vista delle famiglie, allo stato dei fatti, l’unica soluzione percorribile per chi deve uscire di casa per andare a lavorare ma anche per chi deve disporre dello spazio fisico e mentale necessario per concentrarsi sullo smart working è che uno dei genitori rinunci all’impiego o riduca il carico di occupazione per prendersi cura dei figli o, più in generale, dei familiari non autosufficienti. Inutile sottolineare che nel caso in cui si sia costretti a una scelta tra chi debba abbandonare il lavoro a favore dell’impegno domestico l’opzione ricade nell’ampia maggioranza dei casi sulle donne. Ciò non è dovuto (almeno non soltanto) a un pur radicato retaggio patriarcale che associa ancora prevalentemente alla figura maschile la responsabilità del sostentamento familiare ma a considerazioni di ordine pratico legate alla entità degli introiti derivanti dal lavoro dei genitori. Le statistiche dimostrano che in media gli uomini guadagnano ancora più delle donne e, sebbene le cose stiano cambiando, per molte famiglie risulta economicamente più conveniente che sia la donna ad abbandonare il lavoro. Inutile dire che tutto questo è inaccettabile e semplicemente incompatibile con il regime di eguaglianza a pari opportunità delineato dalla nostra Costituzione.

In questo senso pare emblematico, sebbene non direttamente connesso alla condizione specifica delle donne, il ruolo (ma sarebbe più corretto dire «il mancato ruolo») assunto dalla “questione bambini” nel piano di ripresa. I bambini di tutte le età sono stati finora in Italia i grandi assenti nella determinazione delle misure intraprese per gestire il virus e contenere le conseguenze negative dovute all’isolamento sociale. Questa lampante mancanza di attenzione risulta intanto un segnale della scarsa partecipazione femminile ai circuiti di elaborazione dei piani di intervento perché, mi sento di affermare, se le donne avessero assunto un ruolo sostanziale già dalle prime fasi di gestione dell’emergenza difficilmente la situazione dei bambini sarebbe stata trascurata in maniera così netta. Imporre (come sacrosanta misura di precauzione, preme sottolinearlo) la repentina chiusura degli asili e delle scuole anche quando tutte le altre attività restavano operative senza pensare immediatamente a ipotesi alternative per tenere i bambini in sicurezza durante l’orario di lavoro dei genitori implica il retropensiero che ci debba essere sempre qualcuno in casa a occuparsi di loro. Considerando che nella circostanza specifica è venuto a mancare l’altro cruciale strumento di supporto sociale alla cura dei più piccoli, ovvero i nonni, oggetto di cautele speciali perché categoria a rischio e dunque da preservare dal contatto con i nipoti, piaccia o meno nella maggioranza dei casi sono state le donne a dover assorbire la gestione dei figli.

Fermo restando che la scuola non è né può essere considerata “un parcheggio”, ossia un luogo utile solo a ospitare i bambini durante le ore di lavoro degli adulti, è innegabile che l’assenza della possibilità di una situazione sicura in cui tenere i più piccoli preservando le esigenze dei genitori rappresenta una questione concreta con cui tutte le famiglie si sono dovute confrontare. E non è finita. Ciò che infatti non si accetta, più che la gestione dei mesi appena passati, in cui l’esigenza di contenere il virus ha messo in subordine tutte le altre necessità, è la mancata e tempestiva riflessione costruttiva su possibilità pratiche per il futuro.

Altrove nel mondo si è provveduto a studiare possibilità che consentissero il rientro a scuola in sicurezza e in alcuni paesi le attività scolastiche sono già riprese, nel rispetto di rigide misure cautelari e sotto l’occhio attento di chi monitora l’andamento dei contagi. La riapertura viene vista con sospetto da chi teme una riacutizzazione del virus ma non si può pensare di privare a tempo indefinito scolari e studenti dei diritti di istruzione e socializzazione che costituiscono pilastri nella formazione di ogni persona.

Come è noto, per definizione l’emergenza è una situazione transitoria e circoscritta nel tempo. In un contesto democratico già mentre si affronta una situazione straordinaria occorre cominciare a pensare al dopo, a come ripristinare lo status quo ante e garantire i diritti che solo temporaneamente possono subire limitazioni. In Italia il diritto alla istruzione e il diritto dei genitori (e delle madri in particolare) di gestire il proprio tempo e la propria attività lavorativa non sono evidentemente considerati prioritari perché anche in piena fase 2 non è dato sapere se e a quali condizioni le attività didattiche potranno riprendere nelle sedi dedicate.

In un recente articolo pubblicato su The Atlantic, Helen Lewis ricorda che molti - per smorzare la drammaticità delle restrizioni alle libertà imposte dalle misure anti contagio – hanno evocato i casi di Isaac Newton e William Shakespeare che sono riusciti a dare il meglio di sé durante una terribile epidemia di peste che imponeva un isolamento forzato. Ebbene, nota la Lewis, questo è stato possibile solo perché «Neither of them had child-care responsibilities». Il primo era infatti un single incallito mentre il secondo ha passato la quarantena a Londra mentre moglie e figli si trovavano a distanza di sicurezza a Stratford-upon-Avon.

Questo dovrebbe essere il punto di partenza imprescindibile per una riflessione sugli strumenti da adottare per sostenere la componente femminile della società, risorsa attiva e preziosa non solo tra le mura domestiche, e non dilapidare il patrimonio di conquiste sul fronte della parità che rischia di essere compromesso da un obbligato ritorno al focolare per le lavoratrici. Ogni donna che suo malgrado rinuncia al lavoro o che è costretta a ridurlo rappresenta una sconfitta enorme e una grave perdita economica non solo per le dirette interessate ma per lo Stato che ha investito sulla formazione scolastica e professionale e per l’intero Paese che perde una risorsa che contribuisce al benessere generale.

Nello strumentario strategico che si profila per accompagnare la ripresa dopo lo stop forzato è fondamentale tenere conto delle situazioni concrete che vedono le donne andare incontro a difficoltà specifiche e studiare misure orientate a rispondere alle esigenze delle famiglie in considerazione della prospettiva di genere che fino a ora è stata trascurata, lasciando che il carico di lavoro fisico ed emotivo si accumulasse sulle spalle di chi storicamente è abituato a portarlo. Ignorare le cifre che dichiarano il calo dell’occupazione femminile imposto dalla necessità di dedicarsi alla casa e ai figli in assenza di servizi equivale a una resa rispetto agli obiettivi di parità e a una rinuncia onerosa da parte del sistema paese che perde forza lavoro qualificata e può condurre a una regressione del ruolo delle donne, ancora una volta richiamate a prendersi cura innanzitutto delle faccende casalinghe. Tutto ciò comporterebbe una sconfitta su tutta la linea del modello di Stato costituzionale pluralista che si fonda sulla uguaglianza e sulla promozione della capacità dell’individuo, a prescindere dal genere, ma che si dimostra arrendevole quando si tratta di proteggere e affermare i diritti delle donne.
Carla Bassu 29 maggio 2020