di Carla Bassu
«A parole sciocche, orecchie sorde», è la traduzione di un detto di saggezza popolare delle mie parti che tendo a ripetere come un mantra ogniqualvolta mi capita di essere sopraffatta da pillole di stoltezza talmente eclatanti da rendere ogni replica uno spreco di tempo ed energia.
Ho cercato di attenermi al proverbio di fronte ad amenità del calibro: «se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi, perché vuol dire che il suo femminile in qualche modo non è presente in primo piano» pronunciate da un noto psicanalista che già in passato aveva espresso, col tono di verità rivelate, pensieri del calibro «il femminile è il luogo che suscita desiderio» o «in ogni donna è presente sempre il fatto di poter usare la seduzione per ottenere un vantaggio». Certo, ho provato stupore e – non nego – sincera commiserazione al pensiero che cotanto professionista possa avere una visione così banale e riduttiva del femminile che assume invece nella realtà una gamma infinita di colori, declinandosi in ogni donna in modo diverso, in sfumature che non si prestano a essere imbrigliate in un luogo comune. Vero anche che sarei curiosa di chiedere allo scienziato se, data la sua assunta padronanza del concetto di “femminile”, ritiene che Sofia Loren sia più donna di Bebe Vio, di Audrey Hepburn, di Samantha Cristoforetti, di Rita Levi Montalcini, di Michelle Obama, di Jennifer Lopez. Esiste forse una gerarchia di femminilità?
Ancora, mi piacerebbe anche essere resa edotta sulle evidenze che consentono di asserire propensioni riguardanti “ogni donna”, a prescindere da personalità, educazione, cultura, esperienze etc. Le donne che conosco (come gli uomini peraltro) sono tutte differenti; in realtà tra le persone che ho incontrato nella mia vita non ne ho trovato due uguali, è strano? Comunque, ho tenuto per me questi interrogativi, accettando che restassero inevasi in onore al motto di cui all’incipit fino a quando ho letto il modo in cui l’esperto del femminile ha risposto alla scrittrice che ha preteso di criticare le sue posizioni in un equo contraddittorio: «Zitta e ascolta!»
Eh no, gli antichi saggi converranno con me che c’è un limite anche per l’udito selettivo! Non si può accettare di essere zittite pubblicamente solo per aver avuto l’ardire di mettere in discussione opinioni che, in quanto tali, sono appunto oppugnabili. Lungi dall’imporre il silenzio anche a chi professa teorie a mio parere astruse e che farebbero sorridere se non ci fosse il pericolo che possano essere prese sul serio invito al ripasso della nostra Costituzione che riconosce in capo a ogni individuo, tra l’altro, il diritto a esprimere la propria personalità; il principio di eguaglianza; il divieto di discriminazione e la piena libertà di parola.
Che poi una donna o una ragazzina possa sentirsi lusingata ovvero sminuita, imbarazzata, infastidita, turbata da chi si arroga il diritto di rivolgere apprezzamenti al suo passaggio lasciamo che sia lei a deciderlo, senza pretendere di collegare il grado di femminilità alla capacità di attirare su di sé sguardi e frasi di chi, non rispettando l’individuo, si sente in diritto di commentarne l’aspetto.
Ho fatto un sogno: correvo, una mattina, al mare, come d’abitudine beandomi del privilegio di un’alba senza paragoni, nelle orecchie la playlist che in connubio col paesaggio coccola i neuroni e accumula endorfine sufficienti per i mesi a venire. A un certo punto, compare in lontananza un gruppo di persone sedute sul muretto che costeggia la pineta: ragazzi reduci da una notte di festa, con tutta probabilità. Fin qui uno scenario comune nella mia routine di podista mattutina. Nella realtà a quella vista avrei cambiato strada, a costo di sacrificare allenamento e panorama, pur di evitare sguardi ed epiteti più o meno grevi che qualunque donna di passaggio di fronte a un pur piccolo assembramento maschile è abituata a subire.
Lungi da me generalizzare, conscia dell’esistenza di maschi in pace con sé stessi e tanto sicuri della propria virilità da non doverla dichiarare al branco molestando un altro essere umano, devo registrare il dato per esperienza. Purtroppo, già in età piuttosto tenera una ragazza apprende che anche solo camminando per la strada può essere fatta oggetto di richiami, non necessariamente negativi ma che a lungo andare incidono sulla percezione di sé e condizionano la vita. A lungo non ho saputo decifrare il turbamento prodotto dai commenti per strada poi, crescendo, ho capito che non avrei dovuto tenerne conto perché non erano davvero rivolti a me ma a una entità indistinta, un oggetto inanimato; chi li pronuncia non ha mai sentito la mia voce, né può sapere nulla sui miei interessi o sulle letture di cui vado tanto fiera, non ha diritto di giudicarmi.
Esprimendo apprezzamenti non richiesti, anche in buona fede non si gratifica ma si manca di rispetto; si esercita pressione su una persona riducendola in qualche modo a cosa e sebbene questa pratica sia più che radicata è dannosa perché implica una mancanza di riconoscimento dell’altro/a in quanto individuo complesso.
Chiunque si sente autorizzato a esprimersi sull’aspetto di una donna, presupponendo anche inconsciamente che quello sia il fondamentale parametro di giudizio ed è così che le ragazzine cominciano a soffermarsi davanti allo specchio misurandosi e valutandosi, guardandosi con gli occhi invadenti di chi non ha nessun titolo per ergersi a giudice, eppure lo fa con nonchalance. Amiche, è tempo sprecato, sottratto ad attività ben più proficue o divertenti.
Resta l’ingiustizia di fondo perché, siamo sinceri, un uomo che vuole andare a correre indossa le scarpette ed esce mentre una donna riflette prima sul percorso più opportuno, che deve essere frequentato, ben illuminato e vicino a case o negozi. Una corsa in pineta alle prime luci del giorno? A tuo rischio e pericolo, baby.
Tornando alla mia attività onirica, invece di fare marcia indietro o predispormi a ignorare impassibile i coretti come avrei fatto da sveglia, nel sogno tornavo indietro e affrontavo la muta di bulli pretendendo rispetto e sciorinando le norme francesi anti-molestie che (nel mondo dei miei sogni) vigenti anche da noi avrebbero comportato sanzioni gravi, oltre allo stigma sociale. Contriti e sinceramente pentiti, tutti si scusavano.
Un equivoco da chiarire: i commenti allusivi da parte di estranei o in luoghi di lavoro non hanno niente a che fare con la galanteria ma sono espressione di prevaricazione, talora lieve, a volte grave, di chi mira a porsi in una posizione sovraordinata rispetto alla persona cui vengono rivolti. In Francia, come accennato, chi rivolge oscenità per strada rischia fino a 750 euro di multa. Nel rispetto della libertà di espressione questo genere di provvedimento ha il pregio di accendere la luce su un tema sottovalutato e sensibilizzare la popolazione, responsabilizzandola.
Il mio sogno è finito bene, al risveglio sono andata a correre, ripromettendomi di tenere fede al mio coraggio onirico, ma ho portato con me lo spray al peperoncino, premurosamente fornito da un genitore pragmatico.
di Carla Bassu
Se è vero che il grado di tutela dei diritti delle donne insieme con la presenza bilanciata dei generi nei ruoli strategici dell’economia e della società può essere considerato un indicatore di salubrità di una democrazia, il quadro clinico dell’Italia non può dirsi tranquillizzante e non solo a causa del Covid-19. La pandemia ha esacerbato aspetti di criticità preesistenti, esponendo allo sguardo dell’osservatore attento un sostrato culturale in cui l’eguaglianza di genere e le pari opportunità non risultano priorità.
Certamente la condivisione equa dei compiti è una realtà sempre più diffusa nelle famiglie ma è un’evidenza supportata dai dati che le donne risultano ancora maggiormente gravate dagli impegni domestici rispetto ai partner. Lo dimostra, in Italia, l’ultima indagine ISTAT sulla vita quotidiana dalla quale emerge che le donne nella fascia di età 25-45 anni, in coppia con figli, che risultano occupate al pari dei loro compagni, dedicano in media al lavoro familiare ogni giorno il 21, 6% del proprio tempo, a fronte del 9,5% dichiarato dagli uomini. Gli strumenti fino a ora previsti a supporto dei genitori che lavorano, come il bonus baby sitter, sono apprezzabili ma ben lungi dall’essere sufficienti a garantire soprattutto i diritti delle madri.
La questione che più preoccupa è che nel momento in cui si scrive manca una prospettiva di medio termine che consenta di pianificare il menage familiare in un’ottica di progressivo ritorno alla normalità. A differenza di quanto avviene altrove, in Italia ancora non è presente una strategia, anche generica o prospettica che metta in fila le priorità e le misure finalizzate a realizzarle. Questa lacuna è particolarmente evidente con riferimento alla questione scuola o alla cura delle bambine e dei bambini più piccoli. Le prime e tanto attese riaperture delle attività sono avvenute senza che ci fosse una contestuale predisposizione di interventi rivolti ai genitori che richiamati al lavoro hanno l’esigenza molto pratica di lasciare i figli in buone mani. L’estensione di alcuni giorni dei permessi di astensione dal lavoro per questioni familiari risulta una risposta frammentaria e del tutto inadeguata. Dal punto di vista delle famiglie, allo stato dei fatti, l’unica soluzione percorribile per chi deve uscire di casa per andare a lavorare ma anche per chi deve disporre dello spazio fisico e mentale necessario per concentrarsi sullo smart working è che uno dei genitori rinunci all’impiego o riduca il carico di occupazione per prendersi cura dei figli o, più in generale, dei familiari non autosufficienti. Inutile sottolineare che nel caso in cui si sia costretti a una scelta tra chi debba abbandonare il lavoro a favore dell’impegno domestico l’opzione ricade nell’ampia maggioranza dei casi sulle donne. Ciò non è dovuto (almeno non soltanto) a un pur radicato retaggio patriarcale che associa ancora prevalentemente alla figura maschile la responsabilità del sostentamento familiare ma a considerazioni di ordine pratico legate alla entità degli introiti derivanti dal lavoro dei genitori. Le statistiche dimostrano che in media gli uomini guadagnano ancora più delle donne e, sebbene le cose stiano cambiando, per molte famiglie risulta economicamente più conveniente che sia la donna ad abbandonare il lavoro. Inutile dire che tutto questo è inaccettabile e semplicemente incompatibile con il regime di eguaglianza a pari opportunità delineato dalla nostra Costituzione.
In questo senso pare emblematico, sebbene non direttamente connesso alla condizione specifica delle donne, il ruolo (ma sarebbe più corretto dire «il mancato ruolo») assunto dalla “questione bambini” nel piano di ripresa. I bambini di tutte le età sono stati finora in Italia i grandi assenti nella determinazione delle misure intraprese per gestire il virus e contenere le conseguenze negative dovute all’isolamento sociale. Questa lampante mancanza di attenzione risulta intanto un segnale della scarsa partecipazione femminile ai circuiti di elaborazione dei piani di intervento perché, mi sento di affermare, se le donne avessero assunto un ruolo sostanziale già dalle prime fasi di gestione dell’emergenza difficilmente la situazione dei bambini sarebbe stata trascurata in maniera così netta. Imporre (come sacrosanta misura di precauzione, preme sottolinearlo) la repentina chiusura degli asili e delle scuole anche quando tutte le altre attività restavano operative senza pensare immediatamente a ipotesi alternative per tenere i bambini in sicurezza durante l’orario di lavoro dei genitori implica il retropensiero che ci debba essere sempre qualcuno in casa a occuparsi di loro. Considerando che nella circostanza specifica è venuto a mancare l’altro cruciale strumento di supporto sociale alla cura dei più piccoli, ovvero i nonni, oggetto di cautele speciali perché categoria a rischio e dunque da preservare dal contatto con i nipoti, piaccia o meno nella maggioranza dei casi sono state le donne a dover assorbire la gestione dei figli.
Fermo restando che la scuola non è né può essere considerata “un parcheggio”, ossia un luogo utile solo a ospitare i bambini durante le ore di lavoro degli adulti, è innegabile che l’assenza della possibilità di una situazione sicura in cui tenere i più piccoli preservando le esigenze dei genitori rappresenta una questione concreta con cui tutte le famiglie si sono dovute confrontare. E non è finita. Ciò che infatti non si accetta, più che la gestione dei mesi appena passati, in cui l’esigenza di contenere il virus ha messo in subordine tutte le altre esigenze, è la mancata e tempestiva riflessione costruttiva su possibilità pratiche per il futuro.
Altrove nel mondo si è provveduto a studiare possibilità che consentissero il rientro a scuola in sicurezza e in alcuni paesi le attività scolastiche sono già riprese, nel rispetto di rigide misure cautelari e sotto l’occhio attento di chi monitora l’andamento dei contagi. La riapertura viene vista con sospetto da chi teme una riacutizzazione del virus ma non si può pensare di privare a tempo indefinito scolari e studenti dei diritti di istruzione e socializzazione che costituiscono pilastri nella formazione di ogni persona.
Come è noto, per definizione l’emergenza è una situazione transitoria e circoscritta nel tempo. In un contesto democratico già mentre si affronta una situazione straordinaria occorre cominciare a pensare al dopo, a come ripristinare lo status quo ante e garantire i diritti che solo temporaneamente possono subire limitazioni. In Italia il diritto alla istruzione e il diritto dei genitori (e delle madri in particolare) di gestire il proprio tempo e la propria attività lavorativa non sono evidentemente considerati prioritari perché anche in piena fase 2 non è dato sapere se e a quali condizioni le attività didattiche potranno riprendere nelle sedi dedicate.
In un recente articolo pubblicato su The Atlantic, Helen Lewis ricorda che molti - per smorzare la drammaticità delle restrizioni alle libertà imposte dalle misure anti contagio – hanno evocato i casi di Isaac Newton e William Shakespeare che sono riusciti a dare il meglio di sé durante una terribile epidemia di peste che imponeva un isolamento forzato. Ebbene, nota la Lewis, questo è stato possibile solo perché «Neither of them had child-care responsibilities». Il primo era infatti un single incallito mentre il secondo ha passato la quarantena a Londra mentre moglie e figli si trovavano a distanza di sicurezza a Stratford-upon-Avon.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza imprescindibile per una riflessione sugli strumenti da adottare per sostenere la componente femminile della società, risorsa attiva e preziosa non solo tra le mura domestiche, e non dilapidare il patrimonio di conquiste sul fronte della parità che rischia di essere compromesso da un obbligato ritorno al focolare per le lavoratrici. Ogni donna che suo malgrado rinuncia al lavoro o che è costretta a ridurlo rappresenta una sconfitta enorme e una grave perdita economica non solo per le dirette interessate ma per lo Stato che ha investito sulla formazione scolastica e professionale e per l’intero Paese che perde una risorsa che contribuisce al benessere generale.
Nello strumentario strategico che si profila per accompagnare la ripresa dopo lo stop forzato è fondamentale tenere conto delle situazioni concrete che vedono le donne andare incontro a difficoltà specifiche e studiare misure orientate a rispondere alle esigenze delle famiglie in considerazione della prospettiva di genere che fino a ora è stata trascurata, lasciando che il carico di lavoro fisico ed emotivo si accumulasse sulle spalle di chi storicamente è abituato a portarlo. Ignorare le cifre che dichiarano il calo dell’occupazione femminile imposto dalla necessità di dedicarsi alla casa e ai figli in assenza di servizi equivale a una resa rispetto agli obiettivi di parità e a una rinuncia onerosa da parte del sistema paese che perde forza lavoro qualificata e può condurre a una regressione del ruolo delle donne, ancora una volta richiamate a prendersi cura innanzitutto delle faccende casalinghe. Tutto ciò comporterebbe una sconfitta su tutta la linea del modello di Stato costituzionale pluralista che si fonda sulla uguaglianza e sulla promozione della capacità dell’individuo, a prescindere dal genere, ma che si dimostra arrendevole quando si tratta di proteggere e affermare i diritti delle donne.
Donne in tv ai tempi del coronavirus: la rivincita della competenza
di Carla Bassu
All’inizio del 2020, prima che la diffusione del micidiale coronavirus monopolizzasse il dibattito pubblico, si è molto discusso sulla infelice sortita del presentatore di Sanremo che, nell’introdurre la carrellata di figure femminili che lo avrebbero affiancato sul palco ne ha ripetutamente enfatizzato le caratteristiche fisiche (tutte belle, molto belle, bellissime). Il dato estetico è stato quello sottolineato come primo fattore caratterizzante nell’introduzione al pubblico di tutte le compagne di palco di Amadeus («il volto più bello del TG; la giornalista sportiva più bella» etc) e che (amaro) stupore apprendere che in un caso il fattore determinante della scelta, oltre all’avvenenza ça va sans dire, è stata la capacità di stare un passo indietro al proprio celebre e talentuoso compagno. Pur dimensionata in un contesto particolare come quello dello spettacolo nazional popolare (cosa ti aspetti da Sanremo, si è detto con un certo snobismo) questa vicenda ha riacceso i riflettori sulla persistente, inesorabile proposta di un prototipo di donna (bella, molto bella, bellissima) che in quanto rispondente a certi requisiti di appariscenza è ammesso alla ribalta televisiva.
Poi la realtà ha fatto irruzione nei palinsesti televisivi che si sono riempiti di figure autorevoli chiamate a rispondere alla sete di conoscenza di un pubblico ansioso di decodificare il mistero del virus. La competenza è diventato il criterio legittimante la presenza sugli schermi e virologhe e virologi ci hanno aiutato a capire il fenomeno Covid-19 dimostrando (naturalmente) pari autorevolezza. Nessuno si sofferma sul genere di appartenenza o sulle facce più o meno segnate perché tutti siamo intenti ad ascoltare le parole di chi ha cognizione di causa.
È un segnale importante in un ambiente in cui di solito a una varietà di modelli maschili corrisponde un unico modello di donna. Non si può non rilevare che i professionisti in tv sono alti, bassi, magri, cicciottelli, belli, meno belli, riccioluti o stempiati mentre le professioniste, anche le più competenti, sono in larghissima parte accomunate da un aspetto fisico conforme a un tipo predefinito. Il messaggio che si evince è che un uomo per lavorare in TV deve essere bravo e non necessariamente bello mentre una donna deve essere intanto bella e poi magari, in più, anche brava. È difficile che una bravissima che non rientra nello standard di bellezza televisiva riesca a emergere e quando lo fa deve subire una pioggia di commenti avvilenti sul proprio aspetto fisico. Penso alla brillante Geppy Cucciari o ad Antonia Klugmann, chef di grande talento colpita da attacchi violenti rivolti al suo aspetto come mai è accaduto con i suoi colleghi giudici di Masterchef, non proprio degli adoni.
Tutti abbiamo bisogno di modelli cui ispirarci, soprattutto nelle fasi delicate dell’infanzia e dell’adolescenza. È evidente che il bombardamento di modelli standardizzati fin dalla più tenera età ha conseguenze sul parametro di ispirazione a un ideale. Vedere scienziate e scienziati avvicendarsi sui media e confrontarsi alla pari su temi cruciali nella vita di ognuno, come accade tra donne e uomini quotidianamente in tutti i settori, è una novità positiva in un ambiente in cui di solito si presentano modelli vari di uomo e uno solo di donna.
La riduzione a stereotipi comprime oggettivamente lo spazio ispirazionale delle bambine e influenza indirettamente anche quello dei maschi, portati a pensare che il tipo di donna perfetta risponda solo ai caratteri descritti. Ma la crisi sanitaria in atto ha costretto gli studi televisivi ad aprire le porte e ad affacciarsi su un mondo reale popolato di persone competenti, donne e uomini che danno un contributo concreto e significativo alla società e non c’è miglior esempio per i più giovani.
È vero anche che, ben prima che in tv o sui social media, i modelli si acquisiscono a casa, a scuola e nella comunità che ci circonda e qui, fortunatamente, non mancano gli esempi molteplici di donne di valore, affermate in campi diversi (sebbene con le note difficoltà) e belle in modo vario e non standardizzato. La presenza mediatica delle brave accanto (mai dietro) ai bravi è uno tra i pochissimi aspetti positivi che emergono in questa circostanza drammatica, speriamo sia solo l’inizio di una nuova pagina.
17 aprile 2020
Pensieri su diritti, istituzioni e vita quotidiana